“Pane al piombo”, l’ultima installazione-scultura di Francesco Guadagnuolo, si presenta come un rito laico dai caratteri sacri.
Un atto di denuncia che fonde il pane con il piombo per restituire all’osservatore il peso opprimente della sofferenza quotidiana a Gaza.
L’installazione prende vita proprio dalle parole del Cardinale Pierbattista Pizzaballa, che evocano le voci soffocate di chi vive in un deserto di fame e disperazione.
Al centro di quest’allestimento tanta ordinarietà drammatica: un pane monumentale, trafitto da catene e martoriato da proiettili immaginari, sul quale poggia un carro armato che ne appesantisce la levità simbolica.

Un lenzuolo steso ai piedi del convoglio si macchia di rosso, richiamando l’innocenza spezzata dei più fragili come fosse la preparazione di una sepoltura dell’infante.
Ed è qui che irrompe, potente e grave, la voce del Cardinale Pizzaballa: le sue parole – “La fame è un’umiliazione moralmente inaccettabile e ingiustificabile”. A Gaza la fame non si vede, ma si tocca”. L’uccisione di civili in cerca di aiuti è indifendibile”.
Risuonano come un incipit liturgico, trasformando queste frasi in un altare di coscienza, il naturale atto di mangiare in un grido di protesta contro l’ingiustizia e la sofferenza.
La scultura sfida a non voltarsi dall’altra parte, non si tratta solo di ammirare un’opera d’arte, ma di ascoltare un appello urgente alla solidarietà.

Cardinale Pierbattista Pizzaballa
Il pane, simbolo di nutrimento, qui perde la sua innocenza e diventa emblema di una fame usata come arma di guerra.
Il carro armato, bruciante presenza di potere, si fa strumento di oppressione che calpesta la dignità umana; il lenzuolo insanguinato diventa memoria vibrante di un’infanzia spezzata.
Guadagnuolo sceglie il contrasto estremo per scuotere le coscienze e farle guardare negli occhi di chi non ha voce.
Invitando il pubblico ad inginocchiarsi metaforicamente davanti a questo altare di fame composto di ferro e farina, l’artista propone un atto di resistenza civile: reagire all’indifferenza con la propria presenza, al silenzio con il proprio impegno.

Francesco Guadagnolo
In un tempo in cui le immagini della guerra si consumano in pochi secondi sullo schermo e ci lasciano storditi,
“Pane al piombo” ci impone un fermo carico di tensione simbolica: pane, simbolo di vita, condivisione e sostentamento, si scontra con il piombo, che incarna la violenza e l’oppressione, una meditazione profonda sul ruolo che ciascuno di noi può avere nel contrastarle.
Nella fusione di questi elementi Guadagnuolo denuncia come la privazione del cibo, trasforma un atto quotidiano e innocente in strumento di annientamento.
“Pane al piombo” non si limita a denunciare, ma trascina il pubblico in un atto di partecipazione: significa farsi voce di chi non può più parlare.
Non è un’opera facile, non è un’esperienza comoda: è un monito, un grido collettivo che ci ricorda quanto la fratellanza e la compassione siano di importanza fondamentale per la vita che invita lo spettatore ad un coinvolgimento attivo e profondo, non ad una fruizione passiva.
È un richiamo a fermarsi, ascoltare e prendere posizione di fronte ad un’ingiustizia che non possiamo ignorare.
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