mercoledì, 25 Dicembre, 2024 8:36:26 AM

RAVENNA – Norma Jean Baker in arte Marilyn Monroe

“Non avevo portato a termine nulla di importante dentro me stessa, ma mi ero arricchita di esperienze ed avevo capito qualcosa. A volte la coscienza mi lasciava in pace senza rimproverarmi per tutto ciò che non avevo fatto o che non sapevo. Provavo piacere della mia recente capacità di prendere decisioni da sola, anche quando erano sbagliate, di godere del mio lavoro, dell’andare in collera, del piangere o del ridere, di vivere insomma. Provavo gioia nel permettere a me stessa di essere io, positiva o negativa (…) Ero più ricca dentro, (…) in migliori rapporti con me stessa (…) e la realtà può essere magnifica anche quando la vita non lo è.”

Sembrerebbero queste parole della Monroe capaci di testimoniare un suo proporsi compiuta dentro una normalità e davvero Marilyn fu anche   una donna che   in apparenza pareva saper usare la propria bellezza come un passe-partout in grado di aprirle tutte le porte.

In   realtà restò   imprigionata dentro la stanza della propria anima dolente. Ce lo racconta Fragments, miscellanea di sue poesie, lettere e riflessioni, un diario intimista,   ricco di immagini che cercano libertà, forte la prosa di  un suo lessico scarno e semplice.

“Come sono belli/quegli uccelli che volano/Perché li uccidono? /Un uccello non ha scampo/quando vola/E’ crudele uccidere chi/non ha scampo.”

Fragments nella sua forma compiuta  nasce postumo e quasi per caso, per volontà della figlia di Lee Strasberg che, con amorevole cura, raccolse appunti, poesie e riflessioni di Marilyn.

Fin dalle prime pagine si coglie, nella disomogeneità inevitabile della struttura narrativa, una sorta di ambivalenza fra la ripulsa di un’ immagine gioiosa ed erotica  ed il desiderio di convincere ancora attraverso la propria seduttività.

Infastidita per i ruoli sexy, instabile, un’anima irrequieta e profondamente sola, davanti alle altrui situazioni di lutti e perdite Marilyn  dimostrava una sensibilità e recettività uniche e si sentiva profondamente coinvolta nel dolore altrui.

La sua travagliata vita era ben nota, note erano le difficoltà psicologiche, una conseguenza di relazioni genitoriali totalmente carenti, cui seguirono altrettanto infelici adozioni e non certo appaganti matrimoni. 

Bene lo colse Anna Freud, figlia del noto psicoanalista che la ebbe in cura durante le conflittuali riprese londinesi di un film con Laurence Olivier, Il Principe e la ballerina: un gran bisogno di contatto relazionale ma, al tempo stesso, una difficoltà, forte, di tracciare, al proprio interno, confini ove potersi sentire al sicuro.

Una cicatrice profonda, nella quale, per dirla con   P. Schellenbaum, si può leggere la ferita   dei non amati, la loro personale disistima e la tristezza dell’essersi sentiti invisibili.

La Collier, che dedicò gli ultimi anni della propria  vita alla formazione di attori americani, si espresse in modo entusiastico sulle qualità della Monroe, allora ben poco conosciuta.

Con particolare intuizione la Collier seppe andare oltre la banalità delle apparenze  su vicende che ancora oggi, come bene ha saputo evidenziare Anthony Summers nel suo  lavoro di ricostruzione storica, faticano a concludersi con coerenza compiuta perché permangono dubbi, perplessità, incertezze.

Per la Collier Marilyn è stata molto di più di una splendida creatura.

Oh, si, ha qualcosa! E’ una splendida bambina. Non credo che sia un’attrice nel senso tradizionale del termine.

Quello che ha – questa presenza, questa luminosità, questa intelligenza scintillante – non potrebbe mai venire alla luce su un palcoscenico.

E’ una cosa talmente fragile e sottile che può essere colta solo dalla cinepresa. E’ come un colibrì in volo, solo la macchina da presa può fermare la poesia, ma chi pensa che questa ragazza non è altro che una nuova Harlow o simile, è matto.

Spero, prego, che viva abbastanza   a lungo da liberare questo strano adorabile talento che le vaga dentro come uno spirito imprigionato.

Pare dunque che la scelta del mestiere di attrice per Marilyn Monroe non sia stata né casuale né banale. Morta la Collier, Marilyn si mise alla ricerca di un insegnante che le consentisse di liberare il suo talento e lo trovò in Lee Strasberg,  alla cui scuola si formarono attori come Marlon Brando, James Dean, Paul Newmann, Montgomery Clift, Steve Mac Queen e Shelley Winters, tanto per citarne alcuni.

Più che un maestro, visti i più che eccellenti rapporti che si svilupperanno in seguito anche con la moglie e la figlia, l’attrice si conquistò una famiglia e tanto forti furono i legami che i quattro strinsero nel tempo da portare la Monroe a nominarli eredi di propri beni personali.

Allevata alla scuola del metodo Stanislavskij,  di cui il regista era convinto assertore, Marilyn era messa nella condizione di una ricerca continua e spinta all’indagine di ogni specifico motivazionale, di ogni frase o atto.

Faceva confluire una propria emotiva e profonda esperienza di dolore e gioia : in quel groviglio di seduttività e fragilità, che la rendeva unica, si intuiva, come sottolineò a sua volta Lee Strasberg, una creatura dotata di potenza esplosiva.

Fragments, testo in cui viene fatto cenno anche agli aspetti dell’amicizia  con il regista, resta comunque un’opera  efficace e peculiare: le poesie pur prive di tecnica  raffinata condensano spirito critico e sensibilità, forte l’autrice di una natura poetica  istintiva pur  carente di esercizio, come notò in seguito il terzo marito Arthur Miller, l’uomo che ebbe il merito di averla saputa capire ma il demerito di non averla saputa aiutare.

Un esempio di quanto la carica espressiva dell’attrice fosse di per sé potente lo si  coglie in Vita, poesia più volte rivisitata, corretta ed emendata.

“Ho in me entrambe le tue direzioni/restando appesa come appesa all’ingiù/più spesso/ma forte come la tela di un ragno al/ vento – esisto di più nella fredda bruma scintillante/Ma i miei raggi perlati hanno i colori che /ho visto in un quadro-ah vita, ti hanno imbrogliata.”

Le poesie di Marylin, al di là dunque dell’immagine che molti forse amano conservare di lei, rappresentano l’altra faccia della luna, aggiungendo un’ulteriore pennellata alla sua immagine icona, al meraviglioso involucro del quale la natura la dotò.

Dentro quel corpo, che in certi momenti della sua vita l’attrice portò come si porta una valigia, viveva però anche l’anima di  una poetessa.

Fragments suscita soprattutto una riflessione sul dolore: se le persone scarsamente sensibili ed intelligenti tendono a far del male agli altri, le persone troppo sensibili e troppo intelligenti tendono a fare del male a se stessi.

Chi è troppo sensibile ed intelligente sa bene i rischi che comporta la complessità di ciò che la vita sceglie per noi o ci consente di scegliere.

E’ consapevole delle pluralità di cui siamo fatti, non solo con una natura doppia, ma tripla, quadrupla, con tutte le mille ipotesi che comporta il vivere.

Potremmo essere tante cose, ma la vita è una sola e ci obbliga ad essere una cosa sola, quella che gli altri pensano che noi siamo.

L’immagine di una donna di una carnalità così gioiosa si alterna a quella di una persona che si nutre della propria malinconia, incapace di contrastare il sentimento di essere ancora una bambina sola e spaventata.

La storia ce l’ha narrata come una bella bambola, della quale non si può pensare ad un contenuto, una icona come il volto della Gioconda, dietro il quale non si sa cosa ci sia.

“Ero una ragazzina piccola esile, da fuori potrebbe risultare impossibile concepire il fatto che avevo preso le mie piccole insicurezze e le avevo accumulate in un crescendo di tensione nervosa. Pochissimi tra quelli che mi conoscevano , tranne i più sensibili ,se ne rendevano conto e lo accettavano in pieno.”

In Fragments  la forma poetica del frammento nella disomogeneità dell’intera struttura narrativa  consente all’attrice di esprimere illuminazioni,  sensazioni, nette, quella sua fragilità di fondo che spinse  il terzo marito, Arthur Miller, ad affermare che  per sopravvivere sarebbe stato meglio fosse diventata più cinica o quanto meno più realista.

Era invece una poetessa che, all’angolo della strada, cercava di recitare i propri versi davanti ad una folla desiderosa solo di strapparle i vestiti.

Il bisogno di annullamento nella morte viene evocato spesso, almeno quanto il desiderio di poter essere altrove.

“Oh Dio vorrei essere/Morta-assolutamente inesistente/Scomparsa da qui – da/Ogni posto ma come farei/Ci sono sempre i Ponti – il Ponte di/Brooklyn/Ma amo quel ponte (da lì tutto è bello/E l’aria è così pulita) mentre cammini c’è/Calma lì anche con tutte le/Macchine che passano impazzite di sotto.

E’ lo sfrecciare ossessivo dei pensieri che denuncia il duro contatto con gli ostacoli incontrati nel cammino della sua vita:  materialità e movimento la rendono inquieta, sa di essersi sempre sentita sola e lo teme.

“Pietre sulla passeggiata/Di tutti i colori che esistono/Abbasso lo sguardo su di voi/Come loro su un orizzonte/Lo spazio/l’aria tra noi chiama/E io sono molti piani più in là più in su/I miei piedi sono spaventati.”

La solitudine è stato uno dei sentimenti che più ha accompagnato Marilyn: la profonda problematicità dei suoi vissuti l’ha portata a sottoporsi più volte a trattamenti psicoterapeutici ma, come bene sottolinea Luciano Mecacci nel suo pungente testo sulla vita dell’attrice, la Monroe può anche definirsi una testimone di quanto possa essere inopportuna  un’eccessiva vicinanza, o addirittura una frequentazione fuori dal setting,  fra  il terapeuta ed il paziente. 

In questa direzione ci portano anche le sagge parole di  Bruno  Bettelheim. “La differenza fra un paziente ed un terapista consiste nel fatto che il terapista può percorrere il ponte a suo piacimento in entrambi i sensi.

Egli sa in qualsiasi momento fino a che punto può spingersi con sicurezza nel mondo caotico che si estende al di là del fiume che separa la ragione dalla follia, così come sa quando è il momento di affrettarsi a ritornare da quel territorio estraneo nel mondo della ragione.”

Esiste però nella terapia stessa un limite, un’imponderabile: questo è quanto, poche settimane dopo il suicidio dell’attrice, scrisse Anna Freud al dottor Greenson, l’ultimo di una lunga serie di  analisti che ebbe in cura la Monroe.

“Ci s’interroga sempre per capire  (…) perché  una cosa del genere lascia un tremendo senso di sconfitta (…): l’analisi con tutti i suoi poteri è un ‘arma troppo debole.”

Se il testo di Mecacci rappresenta un’analisi minuziosa dei vari trattamenti analitici ai quali si sottopose Marilyn, il libro di Anthony Summers si sofferma con acribia e dovizia di particolari sulla vita della donna, sulle sue relazioni e sulle sue profonde ferite.

Con grande chiarezza e rispetto, con un contenuto e costante desiderio di sincerità e verità.

Per sfuggire a sedici anni ad un’adozione, Norma Jean contrasse un matrimonio che si rivelò un fallimento: non fu capita, tanto meno rispettata, bensì fu usata e regolarmente tradita.

Aveva scelto James Dougherty, il suo primo marito, solo perché lui era incapace di suscitarle repulsione. Ebbe poi anche  altre relazioni, burrascose e molto conflittuali, nel tentativo,forse, di ritrovare il  filo di un dialogo con se stessa, di soddisfare i bisogni di una ragazzina ostinata ed abusata, di sanare le ferite di una bimba che nasce come orfana di fatto perché  regolarmente  traslocata da una famiglia adottiva all’altra, di una giovane adulta che si sposava con  uomini  che si rivelavano oltremodo  incompatibili.

Anthony Summers ci offre un testo nel quale formula anche  proprie perplessità e  dubbi   in merito alla morte dell’attrice.

Fu un suicidio vero? Oppure un suicidio amputato da  un ripensamento senza però che ci fosse qualcuno ad aiutarla per evitarne poi le inevitabili e terribili conseguenze?

Fu invece un omicidio mascherato da suicidio?In mancanza di dati ulteriori in grado di comporre il puzzle, fatto anche di incongruenze e contraddizioni, rimane la tesi di un’azione di nocumento animata dalla volontà di porre fine alla propria esistenza.

In questa direzione autodistruttiva per l’autore possono anche essere letti gli aspetti di grave instabilità che hanno costellato l’esistenza dell’attrice.

Per tanto tempo l’immagine di Marilyn Monroe ha oscillato fra la banalizzazione di (rappresentare un) mero sex symbol e la superficialità del troppo scontato sulle sue poverissime relazioni familiari.

Poche anche le sue amicizie, fatta eccezione quella, nell’età adulta dell’attrice, con Lee Strasberg e con la sua famiglia.

“Marilyn Monroe era un groviglio di contraddizioni, un sex symbol che non trovò felicità nell’amore, un’attrice che si faceva prendere dal terrore ogni volta che metteva piede sul set. Aveva la passione di imparare e non imparò mai a convivere con se stessa. Alla fine precipitò in una condizione che era molto vicina alla follia.”

Era una donna della quale invaghirsi era la più logica delle conseguenze per quella bellezza sensuale e voluttuosa che ne profumava gesti   e parole, tanto seducente che il terzo marito Arthur Miller si spinse a definirla la donna più femminile che si possa immaginare. Con lei si vorrebbe morire. Questa ragazza è una sfida per ogni uomo (…) E’ una specie di magnete che tira fuori dall’animale maschio le sue qualità essenziali.

In un’intervista  rilasciata dallo stesso Miller in tempi successivi  viene anche descritta una Norma Jean (in arte Marilyn) capace di conservare la capacità di sentire e cercare relazioni autentiche, una persona in grado   di dominare l’impulso di buttarsi via, così ossessionata con la storia che era una cattiva ragazza e che non valeva niente da sviluppare un enorme impulso autodistruttivo.

Questo potrebbe spiegare i vari trattamenti psicoterapeutici, anche l’abuso di alcool e psicofarmaci, soprattutto quello stare sul bordo delle situazioni correndo poi  il rischio reale di precipitare, un tratto   di personalità che inquietava molto gli analisti che l’ebbero in cura??!

Intorno agli anni 50/60 imperversava in America la mania della psicoanalisi, ma E.Corday, un medico che curò Marilyn dal 1948 fino alla metà degli anni 50, intuì fin da subito che la gente avrebbe capito meglio la morte di Marilyn se avesse sentito i discorsi che allora faceva nella stanza di analisi.

C’erano già stati nella vita dell’attrice diversi tentativi di suicidio, più di quelli a noi noti: l’uso di psicofarmaci, robe pesanti, oltre ai sonniferi di cui Marilyn faceva regolarmente uso fin dal 1954, non l’agevolava di certo.

Alla fine Corday esplicitò alla Monroe un proprio netto e personale dissenso: non avrebbe avuto intenzione di rimanere a guardare come andava a finire.

Marilyn rimaneva dunque sempre più sola, dentro un personaggio che la imprigionava ma che costituiva l’unica difesa contro la paura che le veniva da dentro, alla continua ricerca di stabilità, tenace quanto incapace di determinazione costante, seducente nell’effervescenza della gestualità affettuosa con la quale si rivolgeva  a coloro con i quali riusciva ad entrare in sintonia, fino a leggersi , un paradosso vero, nella rappresentazione del fantasma.

“I guess I am a fantasy, credo proprio di essere solo un’apparenza o, se si preferisce, un fantasma (…) Siamo per la maggior parte soli (…) nella migliore delle ipotesi si potrà forse spingere la nostra comprensione a  scovare  la solitudine altrui.”

Le migliaia di fotografie dell’icona Marilyn dicono che di lei è stato riconosciuto solo l’involucro ma, come sottolineò Ezra Goodman con il  quale l’attrice ebbe lunghe frequentazioni, esiste in lei ancora oggi  un elemento  enigmatico, quasi magico.

E rimane, forse una profezia,  la poesia che scrisse in occasione del suo trentacinquesimo compleanno, un anno prima della morte.

“Trentacinque anni vissuti con un corpo estraneo/Trentacinque anni con i capelli tinti/ Trentacinque anni con un fantoccio/ Ma io non sono Marilyn/ Io sono Norma Jean Baker/ Perché la mia anima vi fa orrore/come gli occhi della rana sull’orlo dei fossi?”

Rita Farneti.

Bibliografia:                                                       

La madre di Marilyn , affetta da seri problemi psichiatrici, trascorse buona parte della propria esistenza in una struttura manicomiale americana.

S.Freud, L’ interpretazione dei sogni, Milano, Einaudi ,2014

Luciano Mecacci, Il caso Marilyn M. e altri disastri della psicoanalisi, Bari-Roma, Laterza, 2000

Detlef Berthelsen, Vita quotidiana in casa Freud, Ed.Garzanti, Milano, 1990

Marilyn Monroe ,Fragments Poesie,appunti,lettere,Feltrinelli,Milano,2010

A.Summers, Dea Le vite segrete di Marilyn Monroe,La nave di Teseo,Milano,2022

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