di Giovanni Francesco Cicchitti.
Siamo lì, sospesi tra terra e cielo, assieme a Pietro, Giacomo e Giovanni. È il momento in cui la divinità di Cristo si svela in tutta la sua potenza, nella scena della Trasfigurazione.
Attorno a lui, due figure altrettanto luminose: Elia e Mosè, reggono in mano dei cartigli, a testimonianza del compimento delle Scritture e del legame profondo con l’Antico Testamento.
È un’apparizione che vibra di significato simbolico e tensione spirituale, al centro di una composizione solenne ed equilibrata.

Il dipinto è firmato da Giovanni Bellini, come si legge nel cartellino appeso a una staccionata in primo piano: “IOANNES BELLI/NUS ME PINXIT”.
Quindi, non ci sono dubbi sulla sua paternità. E lo stile conferma ogni impressione: figure imponenti, disposte in maniera simmetrica, descritte con un tratto preciso e delicato, con panneggi morbidi e setosi.
L’artista dosa con sapienza il colore e costruisce uno spazio dove luce e forme si accordano come in una partitura musicale.

Particolare.
Ma la scena non si esaurisce nella rivelazione divina. Bellini la cala in un paesaggio reale, riconoscibile, che spalanca nuove prospettive.
Sullo sfondo emergono il Mausoleo di Teodorico e il campanile di Sant’Apollinare in Classe, chiaro omaggio a Ravenna e al suo portato storico e spirituale.
Particolare.
Alla destra della scena un grande albero svetta, e poco distante due uomini – uno dei quali con un turbante bianco – sembrano discutere dell’avvenimento a cui assistono.
Sono forse testimoni musulmani, osservatori esterni, che Bellini inserisce per suggerire una dimensione universale del miracolo?
Il pittore padroneggia con eleganza la prospettiva geometrica, secondo i canoni appresi da Piero della Francesca, e allo stesso tempo introduce elementi che preludono al naturalismo veneziano.
Lo si percepisce nel modo in cui le figure si fondono con il paesaggio: non ci sono contorni rigidi, ma solo colore e luce.
La composizione si apre a una città distesa tra colline, a un castello sulla sinistra, a un pastore che pascola le sue mucche in un angolo appartato. Ogni dettaglio contribuisce a costruire un mondo credibile, immerso in un’atmosfera prodigiosa.

Particolare.
E poi c’è quel cielo – teatro sospeso e palpitante – dove le nuvole, sospinte dal vento, sembrano farsi voce di Dio Padre nel proclamare il Figlio. È una teofania naturale, silenziosa ma possente, che avvolge ogni elemento della scena.
A contrasto, ecco il precipizio in primo piano: rocce taglienti, affilate, spigolose. Un’irruzione aspra e violenta in una visione dominata dalla grazia.

Giovanni Bellini (1430-1516)
Bellini ci costringe a guardare la scena da quel bordo pericoloso, quasi a ricordarci che la rivelazione non è mai un’esperienza innocua.
Questa Trasfigurazione non è solo una scena sacra. È una riflessione sulla visione, sull’equilibrio tra fede e natura, tra rivelazione e osservazione.
E Giovanni Bellini, con la sua maestria luminosa, ci invita a prenderne parte, ad attraversarla, passo dopo passo.
Giovanni Francesco Cicchitti.
Arti Libere Web magazine di arte e spettacolo