giovedì, 21 Novembre, 2024 1:50:25 PM

Bari – Carnefice e vittime della Shoah “pugliese”

di Trifone Gargano.

Per comune convinzione degli storici che si occupano del Novecento, e, segnatamente, dell’Olocausto, cioè del genocidio nazi-fascista, che programmò e realizzò lo sterminio di milioni di persone, di tutta Europa, negli anni a ridosso della seconda guerra mondiale (con esattezza, tra il 1933 e il 1945), eliminando, nei campi di concentramento e di sterminio, persone ritenute “inferiori” o “indesiderabili” (ebrei, prigionieri politici, minoranze varie, omosessuali, disabili, religiosi di varie confessioni, ecc.), è necessario non concentrare l’attenzione esclusivamente sulle vittime.

Auschwitz

Gli esperti, cioè, suggeriscono che una corretta (e proficua) celebrazione della Giornata della Memoria, che si celebra il 27 gennaio di ogni anno, si realizza facendo focus non soltanto sulle vittime di quel genocidio, ma anche sui carnefici, e sulla così detta “gente comune”, su tutta quella gente (in Germania e in Italia) che fece finta di non accorgersi di nulla, di non sapere, e di non vedere nulla.

Solo attraverso questo lavoro (storico e politico) di messa a fuoco sulle vittime, sui carnefici e sugli indifferenti si potrà giungere, un giorno, al possesso di una conoscenza più articolata, complessa e critica di ciò che è accaduto, affinché non si ripeta.

Foiba

Il cammino da percorrere, almeno in Italia, per giungere a una coscienza nazionale, al sentirci, cioè, un unico corpo sociale, è molto lungo.

In Italia, infatti, su molte questioni cruciali della vita della Nazione, non c’è ancora un sentimento popolare condiviso.

A partire dal 2004, fu istituito per Legge il “giorno del ricordo”, per celebrare le vittime delle rappresaglie jugoslave sul fronte orientale, e l’esodo di oltre di 250 mila italiani dall’Istria, avvenuto tra il 1945 e il 1956, e per ricordare con senso di umana pietà e di riconoscimento politico tutte le vittime delle foibe (si tratta di cavità carsiche del territorio dell’Istria e del Friuli Venezia Giulia, nelle quali sono state gettate sia i cadaveri di persone già uccise, sia persone ancora vive, decretandone l’orrenda morte, con modalità di vere e proprie esecuzioni sommarie).

In Italia, il giorno della memoria era nato, sempre per Legge, il 2000, ben cinque anni prima della risoluzione dell’ONU (che è del 2005), che lo istituiva a livello internazionale.

Questo rincorrersi delle date, tra il 2000, il 2004 e il 2005, purtroppo, non depone a favore né della verità storica, e nemmeno della pietà che bisogna provare per le vittime, per tutte le vittime, dal momento che il colore del sangue non è diverso, tra uomo e uomo.

Questo, purtroppo, non è l’unico caso, in Italia, di doppia celebrazione, ovvero, di festività celebrate da molti e ignorate da larga parte del resto della popolazione (si pensi al 25 aprile, tanto per citare un’altra data simbolo non universalmente condivisa).

In Italia, il calendario politico della Nazione non è ancora un calendario unico. Negli Stati Uniti d’America, invece, il giorno del ringraziamento è festività condivisa da tutti gli americani.

Dunque, un cammino ancora lungo, è quello da percorrere, nella direzione della nascita di una effettiva e piena coscienza nazionale.

Tornando alla Shoah di casa nostra,

che definisco “pugliese” per via del coinvolgimento di persone nate in Puglia

o, comunque, vissute in Puglia,

che dovettero fare i conti, loro malgrado, con lo sterminio,

e nell’ottica storico-scientifica che prima ho esposto,

sia pur in modo estremamente sintetico, di far focus sulle vittime,

sui carnefici e sulla gente comune (indifferente),

sento il dovere civico di segnalare, in questa sede,

non tanto alcuni nomi di vittime (che pur ci sono state),

ma quello di Nicola Pende,

nato il 21 aprile 1880 a Noicattaro, in provincia di Bari,

che fu tra i dieci scienziati italiani estensori del

Manifesto della razza,

emanato il 15 luglio del 1938, dal quale poi fu ricavato,

sempre nel 1938, il testo delle sciagurate

Leggi razziali,

origine e causa della deportazione

e dell’uccisione di milioni di persone,

nei campi di concentramento e di sterminio nazi-fascisti.

Per la precisione, Pende, con gli altri nove estensori e firmatari del Manifesto della razza, si rese responsabile della deportazione nei lager (e della loro morte) di ottomila cittadini italiani, tra cui ben settecento bambini.

L’aspetto sconcertante, che desidero sottolineare, è che nessuno di questi scienziati, nemmeno Nicola Pende, fu rimosso dalla cattedra universitaria che occupava, e nessuno fu mai chiamato a rispondere dello sterminio provocato, senza pagare alcun prezzo, anzi, al contrario, reintegrati nelle funzioni (e nei privilegi).

Non così, invece, per gli scienziati perseguitati ed emigrati, come Enrico Fermi o come Bruno Pontecorvo, per fare soltanto due nomi (tra i sopravvissuti).

Lo sconcerto si spinge ben oltre, nella nostra Italia che dimentica presto, e che ipocritamente si ricicla subito, ad ogni cambio di regime.

Molti di costoro, tra cui Nicola Pende, ignorando la loro compromissione con il nazi-fascismo e con lo sterminio di milioni di persone, sono stati pure gratificati, nell’Italia repubblicana, di intitolazioni di strade, e di intitolazioni di scuole.

Tutto questo, nel nome di un cinico senso di appartenenza, e di un comodo alibi di obbedienza.

Che Nicola Pende sia nato a Noicattaro di Bari, con la sua storia compromissoria, e con il peso dei morti sulla coscienza, forse, sarebbe stato più giusto non intitolargli strade e scuole (come, purtroppo, accade ancora di leggere, dalla toponomastica locale e dagli elenchi ufficiali delle Istituzioni scolastiche baresi).

Tra le vittime pugliesi della Shoah, desidero ricordare alcuni casi.

Comincerei con Elisa Springer, scrittrice e superstite dell’Olocausto, nata a Vienna, in una famiglia ebrea di origine ungherese, ma naturalizzata italiana, vissuta a Manduria, in Puglia, autrice di libri di memorie sulla sua drammatica esperienza ad Auschwitz, in quanto testimone della Shoah italiana.

Già nel 1938, per evitare l’arresto e la deportazione, Elisa scappò da Vienna, e si rifugiò a Milano, dove si fermò e visse come traduttrice; nel 1944, poi, fu tradita da una spia fascista, e fu denunciata e arrestata.

Fu deportata al campo di sterminio di Auschwitz, riuscendo miracolosamente a sopravvivere. Nel campo di Bergen-Belsen conobbe personalmente Anna Frank.

Dal 1946, una volta liberata, si trasferì definitivamente in Italia, a Manduria, in provincia di Taranto, con il marito, Guglielmo Sammarco, e dove, oggi, è sepolta.

Per molti anni, Elisa ha tenuto nascosta questa sua drammatica esperienza di sopravvissuta ai campi di sterminio, perché la gente non voleva più sentire quelle storie.

Dopo molti anni, aiutata dal figlio Silvio, scrisse una autobiografia, Il silenzio dei vivi (1997), e cominciò a girare l’Italia, specie nelle scuole, per testimoniare.

Elisa Springer

Springer affidò quel suo libro di memorie,

ai ragazzi, con parole memorabili,

che valgono ancora oggi:

“Affido questo libro a tutti i ragazzi che avrei voluto conoscere,

agli altri che ho incontrato, conosciuto, amato

e che da me hanno voluto sapere…”

Il secondo esempio “pugliese”, per questo giorno della memoria, che vorrei ricordare è quello dell’allenatore di calcio Arpad Weisz, ungherese di origine, che guidò il Bari calcio nella stagione 1931-1932, campionato in Serie A, con il Bari che si piazzò al sedicesimo posto, alla sua prima salita in serie A.

La storia di questo campione del calcio la racconta un (bel) libro di Matteo Marani, Dallo scudetto ad Auschwitz (Diarkos, Reggio Emilia 2021), perché il ricordo, la memoria di questo allenatore del Bari calcio si era persa quasi del tutto.

Bene ha fatto, oggi, il Comune di Bari, a dedicargli una strada, proprio nei pressi dello stadio san Nicola.

Weisz, in Italia, aveva guidato l’Inter, vincendo lo scudetto nel 1929-1930, prima edizione della serie A così come la conosciamo ancora oggi.

Nella stagione calcistica 1931-1932, allenò il Bari. Arpad Weisz fu arrestato, per via delle leggi razziali, nell’agosto del 1942, in Olanda.

Morì ad Auschwitz il 31 gennaio 1944, a soli 47 anni (morirono con lui anche la moglie e i suoi due figli). Weisz, in quel campionato, salvò il Bari dalla retrocessione, alla sua prima apparizione in Serie A.

Resta dunque nella memoria di tutti i tifosi del Bari calcio, e di tutta la città di Bari.

A seguito dell’emanazione delle leggi razziali, nel 1938, tutte le case editrici italiane ricevettero la richiesta, da parte dell’allora Ministero della cultura popolare, di segnalare la presenza in azienda e nel proprio catalogo di elementi di “razza ebraica”.

Bisognava denunciare generalità, residenza, congiunti, ecc., di dipendenti e/o autori in catalogo. A Bari, già dal 1901, era attiva la casa editrice Laterza, fondata da Giovanni Laterza, originario di Putignano, con la collaborazione attiva del filosofo napoletano Benedetto Croce.

Ebbene, Giovanni Laterza,

con coraggio tutto meridionale e tutto pugliese,

rispose nettamente alla richiesta del ministro fascista

con queste parole di fermo rifiuto:

“I Laterza, oriundi di Putignano,

non ricordano di aver mai sentito che genitori ed avi avessero altra fede

se non quella cattolica ed altra razza

se non quella che è tipica dei popoli pugliesi:

forte, tenace e laboriosa.”

Questa bella pagina, ancorché triste e dolorosa, della storia della casa editrice Laterza è raccontata e documentata nel bel libro Quale editore (del 2002), che suggerisco di leggere, come esempio di educazione civica.

In Italia, non tutte le case editrici risposero con coraggio, e a schiena dritta, come fece Giovanni Laterza.

In quegli anni, subendone conseguenze tristi, come il sequestro di libri, di riviste e la chiusura di collane editoriali, ma anche l’arresto e la chiusura totale delle attività, due soltanto furono le case editrici che si opposero al Fascismo, e che quindi entrarono nel mirino del regime: la casa editrice Einaudi di Torino, e la casa editrice Laterza di Bari.

Atteggiamento conciliante e accomodante, di compromesso, presero altri editori, pur grandi, come, per esempio, la Bompiani e la Mondadori.

Questo episodio di disobbedienza civile, per Bari, per la Puglia, e per tutta l’Italia è stato ed è (ancora oggi) motivo di vanto, da non dimenticare.

Qualche anno fa Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo, pubblicò un libro che non ha avuto larga circolazione e il giusto successo, Modernità e olocausto, nel quale metteva l’accento proprio sulle così dette società dell’obbedienza, tra le cause di simili orrori, come il genocidio nazi-fascista, sulle quali riflettere, affinché non si ripetano gli stessi errori (orrori).

Bauman lucidamente scrive, in quel suo libro, che è la società dell’obbedienza e le sue (ipocrite) dinamiche che sono da individuare come i veri responsabili del genocidio.

Zygmunt Bauman

Un rito, quello della cieca obbedienza (al capo) che non è finito con l’entrata dell’armata rossa nel campo di Auschwitz.

No. La società della cieca obbedienza giunge fino ai nostri giorni. Dopo Auschwitz quel sistema cieco e cinico, violento e disumano, continua nella sua riflessione Bauman, è diventato canone.

Fabrizio De Andrè

Mi permetto di aggiungere che, in Italia, qualche decennio prima del libro di Zygmunt Bauman, ci aveva già pensato don Lorenzo Milani a lanciare l’urlo, con «l’obbedienza non è più una virtù».

Don Milani faceva notare che quando un ordine è contrario all’etica,  contrario alla legge universale dell’umanità si ha il dovere (oltre che il diritto) di disobbedire.

Nel 1965, don Lorenzo Milani fu processato (e condannato), perché invitava alla obiezione di coscienza, alla disobbedienza civile. La violenza, affermava don Lorenzo, «è la più subdola delle tentazioni».

Don Lorenzo Milani

Dunque, chi ci salverà? Ci salverà «il soldato che la guerra non la farà» (come canta Fabrizio De André nella canzone Girotondo).

Trifone Gargano.

 

 

 

 

 

 

 

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