di Trifone Gargano
Tanti potrebbero essere i testi delle poesie o dei brani musicali (pop, rock o classica), da citare contro la guerra, dal momento che la storia dell’umanità, in ben cinque mila anni, è stata, purtroppo, sempre, sostanzialmente, storia di conflitti (armati e no). Pare proprio che l’antico detto latino «historia magistra vitae» non abbia mai insegnato nulla all’umanità, ma, anzi, sia stato sistematicamente e totalmente disatteso, ignorato. Siamo, infatti, nuovamente immersi in uno scenario (planetario) di guerra, partito dalla Russia e dall’Ucraina, ma che si va, progressivamente, allargando in termini globali, in tutto il mondo, con effetti nefasti e che riguardano tutti gli aspetti della vita, individuale, collettiva, privata e pubblica.
La mia scelta cade su due testi, la canzone di Daniele Silvestri “Il mio nemico”, che è del 2002, e la poesia di Salvatore Quasimodo, “Uomo del mio tempo”, che è del 1946, scritta all’indomani del secondo conflitto mondiale, entrambi significativamente istruttivi, perché, il primo, denuncia il pericolo di guerre che non siano più quelle tradizionalmente combattute al fronte, con fucili e carri armati, ma che si combattano, come stiamo assistendo in questi giorni, anche (e soprattutto) con i flussi finanziari, le carte Visa (come ripete nel ritornello della sua profetica canzone Daniele Silvestri). Il secondo, invece, il testo del grande poeta Salvatore Quasimodo, è un grido di dolore contro la scienza e la tecnica messe al servizio della guerra, finendo per dimostrare solo una cosa, e cioè che, nonostante il progresso tecnologico e nonostante l’uso delle armi più sofisticate e “precise” che un esercito possa avere, si resta uomini primitivi, come quelli della fionda e delle pietre, come Caino che uccise, con un sasso, il fratello Abele.
Ecco il testo del ritornello della canzone di Daniele Silvestri:
Il mio nemico
Il mio nemico non ha divisa
ama le armi ma non le usa
nella fondina tiene le carte visa
e quando uccide non chiede scusa
il mio nemico non ha divisa
ama le armi ma non le usa
nella fondina tiene le carte visa
e quando uccide non chiede scusa.
Salvatore Quasimodo (1901-1968)
Uomo del mio tempo.
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.
L’uomo del Novecento, e l’uomo del terzo Millennio, purtroppo, restano, alla luce dei fatti bellici più recenti, uomini primitivi, con la tecnica e con la scienza (compresa la scienza finanziaria e bancaria) finalizzate a uccidere. Bisognerebbe, per davvero, accogliere l’invito di Quasimodo, e cioè «dimenticare i padri», voltare le spalle alla storia e alla cultura dei nostri «padri», poiché è stata (ed è ancora) una storia di conflitti, di guerre e di morti.
Trifone Gargano.
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