di Federico Gironi.
Come noto, A Complete Unknown, basato sul libro di Elijah Wald “Dylan Goes Electric!” racconta la vita e la musica di Bob Dylan tra il 1961, l’anno del suo arrivo a New York sulle tracce della fama e di Woody Guthrie.
E’ il 1965, l’anno della “svolta elettrica”, della contestatissima esibizione a Newport che suscitò le ire dei puristi del folk, di cui Dylan era diventato l’esponente più amato e venduto; l’anno dell’uscita di un disco fondamentale nella storia della musica.
In breve: il film di Mangold racconta l’ascesa irresistibile di un genio della musica e la prima, grande e sensazionale metamorfosi; col corredo – accessorio – di tutto quanto è accaduto a Dylan sul piano personale nel frattempo.
Biopic tradizionale quindi? Certo, perché di fronte a un personaggio così camaleontico e misterioso come Dylan o fai come Todd Haynes, che in Io non sono qui (capolavoro) ha frantumato l’icona in diversi frammenti, ognuno col suo volto, il suo stile, il suo significato, oppure ti affidi alle evidenze più note e comuni (e documentabili, data la nota tendenza di Dylan a raccontare balle su di sé).
Alla superficie, senza cercare di grattare sotto e ipotizzare cosa ci si possa trovare (ecco allora perché il titolo, su cui torniamo, è perfetto: perché racconta di non aver voluto sciogliere alcun mistero).
Biopic banale, quindi? Beh no, perché Mangold è emblema di un cinema solido, classico, perfino industriale, ma banale non lo è mai stato mai.
Di A Complete Unknown Mangold fa un biopic, sì, ma anche una sorta di musical.
Lì dove le innumerevoli canzoni cantate da Dylan/Chalamet (e intelligentemente sottotitolate per il pubblico italiano, almeno nella versione originale che ho visto io) valgono come elemento narrativo, come commento implicito a quello che sta succedendo, e non stanno lì solo a esibire loro stesse nella giusta collocazione temporale e cronologica.
Si potrebbe dire, allora, forse, che oltre a essere un film su Dylan, A Complete Unknown è forse ancora di più un film sulla sua musica.
Sul suo valore di commento storico, in un film che parla (anche) di quegli anni così cruciali della storia americana: e viene da chiedersi cosa capirà il pubblico attirato da Chalamet della crisi dei missili di Cuba, e dell’assassinio di Malcolm X, e magari anche di quello di JFK.
La musica di Dylan come commentario di tutto questo, anche, e la sua svolta elettrica, allora, come (facile) presagio della contestazione.
E però, se per Mangold la musica, e quella svolta, sono così importanti, è evidentemente perché quel che qui gli interessa di Dylan è l’artista, il creatore, e i suoi tormenti.
Il Dylan dalla determinazione quasi feroce e dalla creatività irresistibile. Quello che sente addosso tutto il peso delle etichette che gli altri gli hanno messo addosso, e l’invidia di chi gli chiede “da dove vengono le tue canzoni?” intendendo, come dice lui ,“perché non vengono a me?”.
Il Dylan che è testardo, che va dritto per la sua strada incurante degli sconquassi e delle ferite che causa, perfino quando il rischio è di deludere il suo idolo Guthrie, che però finisce col benedirlo silenziosamente, pur consapevole del tradimento del folk, lasciandogli l’armonica che Bob voleva restituirgli e osservandolo dalla finestra, libero e bello, mentre sfreccia via sulla sua moto.
La stessa del famoso e mai del tutto chiarito incidente del 1966, che Mangold non mette sullo schermo ma evoca comunque, e lascia incombere sul film e i personaggi.
Tutto qui? Sì, tutto qui. Niente di nuovo, certo, ma fatto molto, molto bene. E in fondo basta, e avanza.
Perché quel Dylan lì, come i successivi, quella sua integrità e quel suo genio, quella sua voglia di sfidare “i poteri forti” (come gli dice un Johnny Cash purtroppo non interpretato nuovamente da Joaquin Phoenix), quella sua voglia di essere chi vuole in nome di quel meraviglioso talento che ha, e che si è sudato.
Ecco: tutto questo oggi manca da morire, in un mondo dove tutti sono omologati, dove nessuno vuole dispiacere o anche solo stupire il proprio pubblico, dove i talentuosi scarseggiano ma i famosi sono tantissimi, e – come dice giustamente qualcuno – al talento si preferisce il consenso.