lunedì, 19 Maggio, 2025 3:34:10 AM

Roma – Paddington in Perù

di Domenico Misciagna.

Dopo i fasti del secondo capitolo, l’orso ghiotto di marmellata di arance torna in un film a tecnica mista, Paddington in Perù.

Il regista è cambiato, lo spirito di fondo no. Ecco la nostra recensione dell’atteso Paddington 3.

Proprio quando l’orso Paddington riesce a ottenere il suo agognato passaporto britannico, le radici lo chiamano: riceve infatti una lettera che riguarda l’amata zia Lucy, ospite di una casa di riposo per orsi in quel del Perù (sì, non fate domande: è tutto normale).

Preoccupato per la zia che l’ha cresciuto, l’orsetto parte con tutta la famiglia Brown, che si sta per disgregare perché i due figli sono ormai adulti e stanno per lasciare il nido.

L’avventura peruviana sarà l’occasione per trovare o ricompattare più di un nucleo familiare, mentre un certo tesoro fa gola a un barcaiolo ossessionato (Antonio Banderas).

E cosa avrà da nascondere l’infida suora (Olivia Colman) che gestisce la casa di riposo?

Devo confessare che ho affrontato la visione di Paddington in Perù, cioè Paddington 3, con un certo scetticismo.

Uno era causato dal cambio alla regia: il precedente Paul King, autore di quel piccolo capolavoro che fu Paddington 2, era troppo impegnato con Wonka e si è limitato a collaborare in sceneggiatura e produzione, lasciando il timone a Dougal Wilson (esordiente nel lungometraggio, ma tecnicamente esperto dopo una lunga carriera nei videoclip).

È andata bene, perché è rimasto tutto lì: il ritmo, la fusione di riprese dal vero e CGI dell’orsetto, il gusto per fotografia e scenografie curate, la recitazione scoppiettante autoironica, impregnata di quell’understatement un po’ surreale, all’inglese.

In particolare colpisce molto la cura dei comprimari, che funzionano pur essendo macchiette: una sorta di magica alchimìa qui ribadita, anche perché con veterani come Banderas e Colman non si può sbagliare.

La seconda ragione del mio scetticismo era più dura da scalfire: tra Paddington 2 e questo terzo capitolo, c’è stata l’ottima serie animata per la tv Le avventure di Paddington, che sembra la traduzione migliore dello spirito della creatura di Michael Bond, creata nel lontano 1958.

Ingenua, tenera e spassosa, è rivolta a bambini e bambine, ma specialmente nella prima stagione può piegare le resistenze di una persona adulta, tirando fuori il meglio dell’orsetto amante della marmellata d’arancia, nell’estetica e nella poesia dei racconti.

Ecco, quest’essenzialità poetica è più al margine di una grande produzione cinematografica, in una tecnica mista dal sapore più hollywoodiano.

Abituato com’ero alla serie, ho patito una parte centrale in cui il vasto cast umano ha finito per mettere in ombra proprio il carisma del protagonista, solo un elemento di uno spettacolo più ricco e massiccio.

Ciò detto, sottolineando che Paddington in Perù non raggiunge le vette di Paddington 2, c’è un elemento narrativo molto prezioso, che fortunatamente accompagna il recupero della ribalta da parte dell’orsetto, nel climax.

Paddington è un immigrato in Inghilterra che si è integrato perfettamente, e che la sorte però mette davanti alla riscoperta delle proprie radici: deve scegliere chi è.

A quale mondo appartiene? Proporre a un pubblico di famiglie e quindi ai più piccoli un dilemma così contemporaneo, col tenero filtro fiabesco di un personaggio nato oltre sessant’anni fa (!), è degno di inchini.

L’ispirazione è oltretutto rafforzata dall’intelligente scioglimento di questo dilemma, che non possiamo di certo svelarvi: ci basti scrivere che in un mondo sempre più intriso di rabbiose rivendicazioni identitarie, ha il valore di una grande lezione di vita.

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