di Gianni Pantaleo.
Seguendo rassegne e festival di danza, spesso mi soffermo a osservare, quasi fosse un’analisi ottica, ogni singolo ballerino e di come vive sé stesso in rapporto allo spazio nel quale danza. Ma non solo sul palcoscenico. Sarà una mia personale “deformazione professionale” o fors’anche per un po’ di “vetusti” studi sul comportamento umano, ma non sono limitato al solo palcoscenico. L’artista, per un “etologo”, è visto in un contesto molto più ampio che nella sola “dimensione” teatro. Vera Sticchi, anche quando è “ferma”, ha un controllo dello spazio che la rende unica. Lo vive libera. E lo spazio, è infinito.
Vera Sticchi.
Se non capissi cosa si prova a danzare, penserei che sia stata una strada intrapresa “tanto per fare”. La strada è tortuosa. Lo sapeva?
Mi sono avvicinata al mondo della danza quando ero molto piccola. Avevo solo tre anni. Ero una bambina estremamente timida e ricordo come in quella prima sala di danza, in mezzo a tante bambine, mi sentissi a casa. Ricordo quella sensazione di serenità. È stato amore a prima vista. Il rigore, lo studio, la disciplina, la ricerca della perfezione… tutto ciò mi ha affascinata fin da subito. Ho sempre trovato una forte affinità tra la danza e il mio modo di essere, una ragazzina fin troppo perfezionista, autocritica, meticolosa. Non ricordo il momento esatto in cui ho capito che da grande avrei voluto fare della danza la mia vita… ma ho sempre sentito dentro di me che la sua presenza era naturale e necessaria. Crescendo mi sono sempre più resa conto di quanto essa fosse diventata il mio habitat e di quanto mi riuscisse facile esprimermi attraverso di lei; era una sorta di alter-ego: il mezzo che mi permetteva di liberare le emozioni che erano rinchiuse nella persona estremamente timida e riservata che ero. Con la danza mi sentivo al sicuro e sognavo, ma più aumentava il desiderio di seguire questa strada più aumentava la consapevolezza di quanto difficile e tortuosa sarebbe stato percorrerla. Mi sentivo di doverlo fare nonostante inizialmente avessi il timore di spiegarlo ai miei genitori e ai miei coetanei. Avevo paura di non essere capita. Sapevo che per me non era il capriccio di una ragazzina che sognava a occhi aperti… sognavo certo, ma tenendo sempre i piedi ben a terra.
Così quando ha cominciato a studiare danza, nella splendida Lecce, sapeva che non sarebbe stato facile la professione della danzatrice?
Dire che è stato facile? Direi per niente. Mi sono resa conto sin da subito che per intraprendere la professione della danzatrice ci vuole tanto sacrificio: devi avere inizialmente accanto persone che – come te – credono in questo mondo, devi essere disposto a investire tempo e denaro, devi avere pazienza (tanta…), devi saper aspettare. Ci vuole dedizione, studio incessante. Bisogna essere curiosi e affamati di sapere. Ci vuole cura di se stessi, del proprio corpo. Devi avere la consapevolezza di vivere una vita frenetica e per niente stabile: trasferimenti, viaggi, si è spesso lontani da casa e dai propri affetti. Ci vuole carattere, devi essere forte! Ci vuole anche un pizzico di fortuna… E poi il lavoro: troppi danzatori, tanti talenti, pochi posti di lavoro, lavoro precario – per non parlare del fatto che spesso la figura del danzatore non è considerata un vero e proprio mestiere. Non è una vita facile la nostra, ma a me non ha mai pesato. Certo, ci sono stati (e ci sono tuttora momenti duri) ma fino a oggi non ho mai valutato l‘idea di fuggire da questo mondo. Credo che se non avessi scelto questa strada probabilmente non sarei la persona che sono oggi. I sacrifici, il duro lavoro, l’essere sbattuti a destra e a manca, la magia del teatro… tutto questo mi ha riempito l’esistenza.
“La tempesta” di William Shakespeare. Compagnia AltraDanza (2017)
Fiducia di sè stessa.
Fiduciosa di sé stessa o fermezza di ideali?
La prima impressione che si ha di me è quella di una persona molto sicura nelle proprie capacità. La verità è che non ho mai avuto pienissima fiducia in me stessa… forse per il mio essere molto autocritica e perfezionista; per la mia tendenza, a volte, a farmi influenzare dal giudizio degli altri. Nonostante ciò sono stata sempre ferma e convinta nel sapere quello che volevo e questa fermezza mi ha aiutata a non mollare e andare dritta per la mia strada. Sicuramente l‘esperienza mi ha aiutata ad acquisire pian piano più fiducia in me stessa. Se riguardo al passato, oltre ad essere più inconsapevole, ero anche molto più fragile di come sono adesso.
Ha seguito un percorso disciplinare: prima si è diplomata alla National Dance Council of America e poi perfeziona gli studi presso la Dance Arts Faculty con Mauro Astolfi: niente male direi. Ho avuto il privilegio di seguirla durante prove e spettacoli. Sempre ben concentrata, ben attenta, ben strutturata nel ruolo. Ho la sensazione che lei sappia cosa vuole. Mi permetta: si è prefissa una meta?
Mi sono sempre prefissata degli obiettivi nella vita, non ho mai aspettato che le opportunità mi cadessero dal cielo. Volevo ballare e, per poterlo fare, volevo un bagaglio di conoscenze ampio e delle solide basi da cui partire. Mi sono concentrata molto sulla danza classica fino a quando, a Roma, ho scoperto la danza contemporanea. Da quel momento la curiosità, la voglia di imparare, di sperimentare stili nuovi e diversi è cresciuta sempre più. Volevo raggiungere una sempre maggiore consapevolezza del mio corpo e lavorare sul movimento. “Movimento” è una parola che mi è subito entrata nella mente… ero affascinata dall’idea che ogni corpo danzante potesse muoversi in modo personale; di come una stessa frase coreografica potesse assumere forme e sfumature diverse, e al tempo stesso simili, in base al corpo che danzava. Osservavo molto e ho cercato di assorbire tanto non solo con studio e pratica, ma soprattutto con gli occhi. Guardavo i miei compagni di corso, i coreografi con i quali studiavo, i danzatori delle compagnie che più amavo cercando di assorbire tutto ciò che trovavo affascinante nel loro movimento facendolo mio.
“La tempesta”. Con Orazio Caiti.
Tom Grace. Compagnia Fabula Collective al Sadler’s Welles di Londra.
“Frammenti di un discorso amoroso”. Antonio Mitaritonna, Vera Sticchi. Compagnia AltraDanza (2016).
Ritorno in Puglia.
Ritorno in Puglia. Non è il titolo di un film ma il suo ritorno in terra di Levante. Si sentiva pronta per il palcoscenico?
Durante gli studi a Roma è cresciuta sempre più la voglia di fare della danza la mia professione. Come danzatrice il palcoscenico è un’esigenza naturale. Mi sentivo pronta? Sicuramente sapevo che lo studio alle mie spalle e il buon rapporto con il palcoscenico che ho avuto sin da piccola mi avrebbero aiutato nell’affrontare la scena con un minimo di sicurezza. Allo stesso tempo ero consapevole del fatto che non bastano gli anni di studio in una sala di danza per essere pronta. In teatro sono tante le variabili che entrano in gioco e devi saper gestire le emozioni: la paura, l’ansia, l’adrenalina… Ho visto tanti miei compagni di corso che, anch’essendo dei bravissimi danzatori, una volta sul palco, perdevano la bellezza della loro danza. Sapevo che per essere pienamente pronti ad affrontare il palcoscenico sarebbe servita esperienza – passaggio fondamentale per chi vuole intraprendere la strada del danzatore e ambisce ad entrare in compagnie professionali. Ma questo passaggio non è così ovvio. Le accademie di danza (la maggior parte) ti formano come danzatore. Eppure, una volta terminati gli studi, ti ritrovi solo e speri di essere ammesso ad un’audizione dove però si cerca solamente chi ha già esperienza. La domanda è sempre la stessa: come posso fare questa esperienza? Io sono stata fortunata. Probabilmente mi sono trovata nel posto giusto al momento giusto. L’occasione mi si è presentata al mio ritorno in Puglia nella pausa estiva del corso accademico che frequentavo a Roma. A Bari ho conosciuto Roberta Ferrara e ho iniziato a lavorare con la sua compagnia di giovani danzatori. Con lei e la sua compagnia ho avuto la possibilità di crescere come danzatrice, acquisire maggiore maturità artistica e sicurezza del palco, di assaporare quella che è la vita di un danzatore professionista. La sala prove, la gestione della stanchezza fisica e mentale, i viaggi, gli spettacoli nei piccoli e grandi teatri, il mettere in piedi un lavoro in pochi giorni, l’ansia delle prime volte che col tempo svaniva sempre più… Salire sul palcoscenico era diventato quasi naturale; era ormai come entrare in un’altra dimensione, dimensione nella quale mi sentivo a mio agio.
Apro una parentesi: lei è acciaio, nonostante il suo aspetto fisico da “giunco”, lei ha un temperamento difficilmente scalfibile. Ma alle audizioni, non ha timore di non “farcela”? Anche nel “Mago di Oz” l’uomo di latta dispera per avere un cuore…
Nonostante la mia apparenza, ovvero – come mi definisce – quella di sembrare “d’acciaio”, alle audizioni ho avuto spesso timore di non farcela. Ricordo che all’inizio, dopo un’audizione andata male, la prendevo come una sorta di sconfitta difficile da accettare. Crescendo mi son poi resa conto che in un’audizione sono tante le variabili che possono entrare in gioco: oltre che al talento (che conta sicuramente) bisogna trovarsi nel posto giusto al momento giusto. L’importante è in ogni caso dare il meglio di sé ogni volta senza partire sfiduciati o lasciarsi sopraffare dall’ansia.
“Atmos” (2018). Con Claudia Gesmundo.
I professionisti della danza.
Quindi…self control. Giusto? E’ uno studio di ricerca interiore che ogni danzatore deve avere?
Ci vuole molto self-control. Bisogna saper gestire le proprie emozioni, le proprie paure, le proprie ansie. Bisogna essere in grado di allontanare il più possibile i cattivi pensieri. Mai dimostrarsi fragili, ma mai risultare imbattibili.
Dopo Equilibrio Dinamico, lei lascia di nuovo la Puglia. Festival nazionali e internazionali. Danza contemporanea, Belgio, Bert Uyttenhove, coreografo e direttore artistico dell’ Interdans in Belgio, e Macia Del Prete, Mario Enrico D’Angelo, danzatori loro stessi e altri, tutti professionisti della scena: questa sua padronanza quando è sul palcoscenico, è anche frutto dei loro insegnamenti? Uno tra i tanti che l’ha più persuasa a “educare” il “panico” della scena…
Non c’è una persona in particolare. Tutti i professionisti del mondo della danza che ho incontrato e tutte le esperienze che ho vissuto, dalle più piccole alle più significative, mi hanno permesso di acquisire sempre più padronanza del palcoscenico: la mia prima insegnante di danza Rosalba Mazzotta che sin da piccola mi ha spronata e accompagnata nel mio percorso artistico trasmettendomi la passione e l’amore per questa forma d’arte; tutti i coreografi con i quali ho avuto la possibilità di studiare durante i miei anni al D.a.f di Roma; le esperienze in compagnie come Equilibrio Dinamico, Altradanza, Fabula Collective; i coreografi con cui ho lavorato: Merola, Delle Grazie, Jhonny Autin, Caiti, Travis Clausen-Knight, Ana Presta e altri; tutti i teatri in cui ho ballato in Italia e all’estero; tutti i miei colleghi danzatori con i quali ho condiviso il palcoscenico.
Merola, Iannone, Caiti, Petrillo, Delle Grazie, nomi tra i migliori coreografi della danza contemporanea di oggi. Un danzatore è anche un po’ “psicologo”? Stili diversi, forme d’arte coreografica personali. Siamo soliti pensare che il corpo di ballo “penda” dai canoni dettati dai coreografi. Cosa fa un danzatore con un nuovo maestro coreografo? Azzera quello appreso dal precedente e “impara” dal nuovo?
Una delle cose in cui credo fermamente è che un danzatore debba avere una propria personalità che prende forma col tempo in base al bagaglio artistico personale. Un danzatore deve essere aperto ad accogliere nella sua danza il “nuovo”, non deve rimanere chiuso nella propria comfort-zone ma deve mettersi in gioco continuamente, sperimentando e ricercando. Un danzatore deve essere una spugna capace di assorbire nuove conoscenze e deve provare a spingersi oltre i propri limiti. La danza contemporanea racchiude una vastità di stili al suo interno. Ogni stile è unico, personale. Ho avuto il piacere di lavorare con coreografi e danzatori diversi stilisticamente e con personalità differenti tra loro. Il mio modo di approcciarmi al lavoro di ognuno è stato quello di cercare di fare una sorta di tabula rasa iniziale, accogliere il “nuovo” e lasciarmi influenzare da altri stili e dinamiche di movimento per poi integrarli al mio background artistico e gusto personale. Il risultato è stato un arricchimento sia del mio bagaglio artistico che della mia personalità come danzatrice.
Anima e Corpo.
2017, DAB17 (Danza a Bari n.d.r.). Rassegna di danza contemporanea a Bari, lei è stata una straordinaria Ariel ne “La tempesta”, una delle ultime opere letterarie di William Shakespeare, la più complessa e anche la più “matura” drammaturgicamente, con la Compagnia AltraDanza, coreografata dal m° Domenico Iannone. Quello “spiritello” così ben interpretato era anche danzato con un suo “stile” che la identifica in ogni lavoro. Intendo: lei ha una sua maturità conquistata con l’esperienza e lo ha dimostrato con il ruolo di Ariel. Quanto “entra” in un ruolo? Senza anima non si danza…
Un danzatore deve essere bravo a far danzare non solo il corpo, ma anche la sua anima. Credo che su quest’ affermazione siamo tutti d’accordo.Per me entrambi sono imprescindibili. Certo, se la tecnica e il movimento si possono acquisire attraverso lo studio e la pratica incessante, il danzare con l’anima non si può apprendere allo stesso modo. Nessuno insegna come si fa a ballare con l’anima. È un qualcosa di innato, naturale privo di artificiosità e forzature. Sicuramente l’esperienza può aiutare e rende più maturi sulla scena così come la consapevolezza che si danza non solo per se stessi, ma per il pubblico. La danza è un dialogo silenzioso tra il corpo danzante e lo spettatore; se non si riesce a comunicare nulla, ne rimane soltanto un soliloquio.
“Atmos”. Claudia Gesmundo, Vera Sticchi.
“Siamo come nuvole. Effimeri pulviscoli di vapore sospesi nell’aria”. C’è poesia nel testo che ci prepara alla visione di “Atmos”, danzato e coreografato da lei e Claudia Gesmundo. Vedervi in scena ha reso il senso di quanto “libere” si è dalla “forma”. Chiedo: questa “astrazione”, ci allontana dalla realtà? Guai a toglierci i sogni, però poi, mi devo pur svegliare…
Sia il danzatore che lo spettatore vivono un’esperienza che può sembrare distaccata dalla realtà, un’esperienza astratta, ma è grazie a questo linguaggio non esplicito che ognuno è libero di vivere una sensazione, un’emozione nuova o già vissuta; si può rivivere un momento che è o che è stato reale. Anche un solo gesto in un intero spettacolo può riportarci a qualcosa di familiare o vissuto. Nessuno ti dice cosa pensare, la danza ti rende libero.
Vera Sticchi si libra nell’aria, la sua danza la libera dalle introspezioni che possono anche essere costrittive, soprattutto in questi lunghissimi mesi in cui pare non ci si possa ancora…acchiappare per stare insieme. Ma la sua “libertà” è un dogma: riusciremo ad acchiapparla? Quali altre nuvole ci presenterà in futuro?
Prima di tutto mi auguro che questo periodo di crisi profonda per il mondo della danza, per i teatri e, in generale, per il mondo dello spettacolo possa terminare al più presto. Perché non si può vivere senza l’arte e senza i sogni. Mi auguro che quando tutto ciò sarà finito si possa assistere anche a un cambiamento sostanziale della tutela sociale dei lavoratori dello spettacolo ed a un incremento del numero di spettatori, soprattutto giovani, a teatro. Tutti noi danzatori e tutti i giovani che vogliono intraprendere la strada della danza hanno diritto di credere che la danza possa avere un futuro reale e non evanescente. La mia è una speranza. La speranza di tornare presto a danzare su un palcoscenico. Ho avuto la fortuna di tornare a respirare l’odore e di rivivere l’atmosfera magica di un grande teatro, quello dello Sferisterio di Macerata l’estate scorsa dopo l’ultimo lockdown. La forte emozione e la commozione sono state inspiegabili. Il respiro del pubblico reale in platea, le luci, l’adrenalina sul palco, Il buio, il silenzio, gli applausi. Tutto questo è essenziale per un danzatore. È essenziale per me.
Nonostante dimostri una consapevole dimensione di sé stessa nel contesto “danza”, percepisce bene quanto complesso e faticoso, è il percorso per un danzatore. Vera Sticchi nasce ballerina, lo dimostra quando racconta di quella bambina timida che appena entrata in una scuola di danza, libera sé stessa ritrovando il mondo che non viveva. Ad appena tre anni. Troppo pochi per esserne coscienti? Non direi. Se nasci ballerina, è la strada che ti trova e si lascia percorrere. Magia? Ma no, realtà.
Gianni Pantaleo.
Ph. Gennaro Guida.
Photo di copertina: Tamara Casula.