Di Gianni Pantaleo.
Andy Warhol
E’ stato pittore, attore, grafico, pubblicitario, illustratore, scultore, produttore cinematografica.
A quanti di quei “critici” che sostenevano che Andy Warhol era uno dei più grandi bluff dell’arte moderna, un po’ di riflessione suggerirei di farla.
Figlio di slovacchi emigrati in America, Andrew Warhola, dimostrò da subito, in un paese immenso come l’America, la passione per le arti visive. Studiò arte pubblicitaria al Carnegie Institute of Technology di Pittsburgh e subito dopo la laurea partì per la “grande mela”: New York.
Assunto come fotografo e grafico per due delle riviste più influenti della moda: Vogue e Glamour, Andy Warhol diventa estremamente importante nelle decisioni delle redazioni di numerosi altri magazine di moda e arte tanto da condizionare tutto il sistema di produzione e vendita di massa.
Il suo talento fu applicato al marketing con una forte e profonda analisi dell’informazione attraverso le immagini. Warhol divenne produttore e consumatore di sé stesso utilizzando tuto ciò di cui era circondato, dagli oggetti più banali agli arredi di interni, in opere rivisitate rendendo il più comune dei barattoli, un oggetto da vedere, toccare, ammirare.
Uno scandalo ben pensato e ottenuto per fare gridare all’orrore che un’artista provocava prendendo una “Venere di Milo” e imbrattarla di colori fosforescenti. Uno “schiaffo” alle accademie.
A quelle arti “per pochi”, ai santuari custodi di patrimoni artistici riservati agli estimatori della cultura. Attenzione: Warhol non contesta le arti accademiche: la “replicazione” in serie di un’icona dell’ arte, quale la “Gioconda” di Leonardo da Vinci, permette a tutti di “avere” in casa la “Gioconda” di Leonardo da Vinci.
Conscio della estrema bellezza dei grandi artisti del passato, Warhol massifica il culto in oggetto comune rendendolo accessibile a tutti. Perché l’arte deve essere di tutti.
Questo si prefigge e cominciano le sue produzioni infinite di litografie a tiratura illimitata. L’arte diventa popolare. Nasce la Pop Art che ha influenzato venti anni di società del piacere della vita vissuta di moda, colori, musica e piaceri mondani.
Fondò le famose “Factory”, centri di studi artistici e soprattutto centri sociali dove tutti esprimevano con i laboratori, pittura, teatro, cinema, manifestando le personali tendenze creative.
Maestro di arti visive, le Factory divennero centri di formazione alle arti. Quelle arti che erano anche mercato. La “replicazione” di un’immagine diviene bene di consumo, così come un prodotto, l’arte sarebbe potuta essere un bene di consumo e cessato l’uso, ne acquisiva un altro.
Siamo nella famosa Grande mela. La metropoli dove tutto corre e tutto si reinventa. Siamo negli anni ’80: tutto il mondo occidentale vive il benessere sociale ed economico.
Tutto si consuma, si beve, si balla, la moda si insinua nei mercati dando accesso a tutti di avere ciò che hanno altri: il prêt-à-porter. Tutto è in serie. L’industria del consumismo.
Warhol sperimenta forme d’arte in parallelo alle sue famose produzioni di pitture e serigrafie.
Cinema e musica sono le nuove produzioni delle “Factory”. Produttore dei “Blue velvet” con l’allora sconosciuto Lou Reed, importa artisti stranieri che reputa interessanti “prodotti” per il consumatore: Patty Pravo e Loredana Bertè, già icone della musica italiana, diventano protagoniste di cover e lungometraggi prodotti dalle “Factory”.
Descriverei questi “camei” internazionali (Warhol invita tutti gli artisti del mondo), come un omaggio agli esseri umani. Omosessuale dichiarato e provocatore delle libertà individuali, Warhol è uno dei massimi testimoni dei diritti sociali e contro le differenze delle minoranze etniche.
Lasciando le polemiche sul concetto dell’arte che Andy Warhol ha, l’intrinseco contenuto delle sue opere, dimostrano l’universalità del suo messaggio: l’arte proposta e replicata perde il suo significato di “prestigio” culturale compreso dall’ èlite.
Non è la gente che entra nei musei, ma sono i musei che spalancano le porte al mondo. La vita privata di Andy Warhol, al di là dell’artista, era dedicata al volontariato, ai senzatetto.
Le “dissolutezze” del famosissimo “Studio 54”, straordinaria discoteca di New York, fondata da lui, altri non era che una vetrina di protagonisti che fuori dal quel contesto, erano gli emarginati delle grandi strade.
Tutti erano protagonisti. A tutti erano concessi i famosi “quindici minuti di celebrità”.
Forse non avrebbe risolto le infinite problematiche individuali, ma quindici minuti di celebrità avrebbero comunque dato quindici muniti di felicità. A tutti.
Andy Warhol non fu poi così noto all’epoca se non agli addetti al lavoro. Alla sua morte, avvenuta il 22 febbraio 1987, gli eredi misero in produzione moltissime dei suoi lavori, impostando completamente nuove forme di realizzazione, grafica e colori.
Gli attuali famosi ritratti che tutti conosciamo, sono tutt’oggi in produzione perché come desiderava, l’arte è un bene di consumo.
Gianni Pantaleo.
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