I ricordi svaniscono con noi. La memoria resta. Non si possono tramandare i ricordi, essi sono parte di noi e li portiamo via con noi.
La memoria la documenti, la tramandi e diventa storia. Spetta poi a chi ha vissuto quella storia, raccontarla e come da metodo di studio, la ricerchi.
E’ la ricerca che anima la storia arricchendola, fornendo sempre maggiore documentazione, che ne attesti veridicità e attendibilità.
Così, oggi, disponendo di strumenti che permettono di fare ricerca, scandagli gli angoli del globo e…
Richard Lee, danzatore, coreografo. Chi risponde all’intervista che segue, è lui: il maestro.
E’ l’arte più creativa e emozionante del teatro: la danza. Forse la più difficile da rappresentare perché a “parlare” è il corpo. Antichissima forma di comunicazione, la mimica, la danza “balla” la gestualità. E’ ancora oggi così nella danza?
Per sintetizzare un po’, la danza è un’attività principalmente fisica in cui l’interprete è insieme prodotto e strumento. Anche prima di parlare di linguagio tecnico, ha come scopo di tutti i lavori di formazione la completa fusione di corpo e mente. La mente deve addomesticare un corpo che a volta vuole agire per sé, “au hasard” o per abitudine, per fondersi nel proprio fisico creando uno stato in cui non è possibile distinguere un’autonomia di nessuno dei due.
In sala o in palcoscenico, ci sono tre cose che apprezzo. In primo luogo, una formazione precisa e curata. Cioè il danzatore che è padrone del suo vocabolario classico, moderno, quello che sia, che sa come funziona il suo corpo, e che si dimostra non solo capace di prodigi technici, abaglianti che possono essere, ma premia il controllo e la maestria quasi artigianali sul movimento nei più piccoli dettagli.
Perché si realizzino le possibilità offerte da una buona formazione, ci vuole concentrazione, o meglio, l’abilità e la dedizione di incentrarsi, di essere “presente” o “fondersi” nel movimento, quindi niente di “buttato”. Finalmente, nessuna arte può essere interessante, può giustificarsi, senza il rischio, ma rischio preparato con consapevolezza.
Per me, ciò che sorregge la “gestualità”, o il “parlare” intesa in qualsiasi senso è una cosa che vorrei chiamare “cantilena”.
Vicino all’uso che ne fa del termine Elena Tchernichova, per cantilena intendo il controllo reso quasi inconscio della qualità del movimento, la capacità, e anche l’intelligenza di sviluppare una linea lunga, anzi di qualsiasi lunghezza.
George Balanchine
È lo “stare nel movimento” e una facoltà necessaria alla musicalità. Ma molto di più, perché per me l’espressione — può sembrare paradossale — nasce e spunta fuori dal movimento e non il contrario, l’emozione che determina il gesto.
Lei, maestro. Gli inizi, e una domanda nostalgica: facciamo un omaggio ai suoi maestri?
Per me, come credo per molti altri, una volta scoperta questa particolare forma di teatro, diventare danzatore non è stato tanto una scelta quanto l’affermazione di una esigenza esistenziale. E ciò vale soprattutto per chi, ancora come me, non sia cresciuto in un famoso teatro o formato in una grande scuola da giovane.
E ciò vale soprattutto per chi, ancora come me, non sia cresciuto in un famoso teatro o formato in una grande scuola da giovane.
Ciò detto, anche se mi pareva tutt’altro in partenza, la fortuna mi ha sorriso nel senso che ho fatto in tempo per lavorare con gli ultimi esponenti del Ballet Russe negli Stati Uniti. Ad esempio, Natalie Krassovska, con grandissima generosità, mi ha insegnato il passo a due di Don Chisciotte, immagini: da soli, e ballando con me! In seguito, ho lavorato personalmente con coreografi quali George Balanchine, Anthony Tudor, George Skibine, e tanti altri negli anni d’oro del “boom” della danza.
Non c’è dubbio, però, che devo la mia carriera a una manciata di maestri chiave.
Avevo già ballato con il Houston Ballet, Pennsylvania Ballet, Atlanta Ballet, fra gli altri, dove naturalmente ho anche studiato, quando ho conosciuto Perry Brunson. Anche lui proveniente dal Ballet Russe, insegnava alla scuola del Joffrey Ballet a New York.
La lezione di Brunson, come quelle di tutti i grandi maestri che ho conosciuto (qualcuno di più, qualcuno di meno) non si presentava come una mera serie di passi più o meno interessanti e stimolanti.
Al contrario, era strutturata esplicitamente, ripeto, esplicitamente proprio per sviluppare un insieme di forza e “piazzamento” per ottenere il massimo controllo sulla qualità del movimento e quindi l’espressione.
A Parigi ho preso lezioni da Raymond Franchetti per almeno una dozzina di anni, e sarebbe difficile esprimere quanto gli devo, o meglio devo alle sue lezioni.
La lezione delle dieci, per la quale suonava la meravigliosa Elizabeth Cooper, era frequentata da gente molto diversa. Si sgomitava con i più grandi, mentre nelle ultime file si cercava di seguire l’adulto che non aveva fatto, e non avrebbe mai fatto, carriera.
Incredibilmente, però, anno dopo anno tutti facevano progressi, secondo, naturalmente, le loro diverse possibilità! Anche qui (Franchetti correggeva, ma poco), come da Perry Brunson (lui correggeva tanto), era la struttura stessa della lezione che produceva i risultati.
L’apporto di Maggie Black e Lawrence Rhodes, tuttavia, si colloca su tutto un altro livello. Quest’ultimo, che è stato uno dei più importanti esponenti della danza classica della sua generazione negli USA, nonchè persona di infinita grandezza d’animo, ha cominciato a pensare seriamente all’insegnamento proprio quando stava ballando in Italia con Carla (Fracci).
Carla Fracci
Durante le nostre tournées con “Giselle” e “Romeo e Giulietta” (anni ’74 – ’76) dava lezioni alla compagnia, impiegando innovazioni tecniche basate su una comprensione del funzionamento muscolo-scheletrico del corpo nel movimento, appreso dalla Black.
In un certo modo, ha confermato la mia concezione della tecnica. A più lunga scadenza, soprattutto dopo aver studiato con la Black a New York mentre ballavo con Stars of American Ballet, mi è servito come una razionalizzazione e base per un metodo che poi ho applicato io stesso come insegnante.
Lei è “figlio” del repertorio classico. Generazione di danzatori delle importanti coreografie di “Corsaire”, “Sleeping beauty”, “Romeo and Juliette”. La danza della bellezza, dell’iconografia colta e ricercata. Nel corso degli anni si è fatto spazio la ricerca dei nuovi linguaggi coreografici. George Balanchine fu pioniere. Ma la danza è racconto o intuizione?
Ha ragione; in fondo sono “figlio” del repertorio classico, almeno nel senso che è così che mi sono sempre auto-definito. “Il Lago dei Cigni”, “La Bella addormentata”, “Silfidi” e tutti gli altri classici erano il mio sogno fin dalle mie prime lezioni, ed in vari ruoli, e in diverse compagnie li ho ballati tutti. Sarà, magari, la solita storia del ragazzo campagnolo che aspira al principato?
Sono nato in una grande città purtroppo anche molto provinciale, da genitori che non avevano nessuna idea che esistesse una cosa come la danza classica, sebbene mia madre fosse musicista e laureata (anni ’30 quando pochissime donne facevano l’università).
Dunque, la mia storia nella danza incomincia lì, in 1962 con il primo balletto che ho visto dal vivo, “Il Gallo d’Oro”, un’opera danzata di Rimskij Korsakov. Sono rimasto trafisso e ho deciso in quel preciso moment che avrei tentato la carriera del ballerino.
Richard Lee
Erano i primi anni dopo la defezione di Rudolf Nureev. Lui stava da tutte le parti, anche tanto in televisione; mi ricorderò per sempre la sera che lo vidi con la Berisosova in “Diana e Atteone”.
Erano i primi anni dopo la defezione di Rudolf Nureev. Lui stava da tutte le parti, anche tanto in television; mi ricorderò per sempre la sera che lo vidi con la Berisosova in “Diana e Atteone”. Era chiaro che tanto stava cambiando nella danza, soprattutto per gli uomini. Non è stata la prima volta, di certo, ma il momento per me sembrava propizio, pieno di possibilità.
Però, meglio parlare di coreografi forse, i fattori di danze, e per ora quelli che rientrano chiaramente nella tradizione classica; si potrà pensare a quelli controcorrenti più in là magari.
Come da lei accennato, i coreografi hanno contribuito enormemente allo sviluppo del balletto nel ventesimo secolo, a cominciare da Fokine per continuare con George Balanchine e Anthony Tudor, per nominare due dei quali con cui ho avuto l’onore di lavorare.
Per quanto riguarda il mio rapporto con Balanchine e il repertorio da lui creato, devo risalire alla stagione 1963-64. Quell’anno prendevo lezioni alla scuola di ballo del Metropolitan Opera e ho anche avuto la possibilità di vedere tutti i balletti che il New York City Ballet metteva in scena al City Center quel anno. Dire che sono rimasto colpito sarebbe sminuire di grosso l’impatto che quella stagione ha avuto su di me.
Il linguaggio Balanchiniano è chiaramente classico, lui prodotto della scuola imperiale russa, per la technica e per la concezione stessa dello spettacolo, ma risulta anche dialettale in quanto rispondeva ai suoi tempi.
Ho sempre trovato straordinario la coerenza con cui riusciva a ricreare lo spazio musicale nello spazio fisico tramite il movimento, la danza.
In quale altro coreografo si trova questo rapporto sempre, sempre così stretto? Ricordimorci che Mr. B. ha anche studiato pianoforte e composizione al conservatorio.
Per citare un esempio, il suo “Concerto Barocco” mette in scena il concerto di J.S. Bach per due vioini e risulta in tre movimenti di ininterrotta bellezza non solo per le figure strutturale della coreografia e i singoli “enchaînements” che inventava per i ballerini, ma più di ogni altra cosa per l’assoluta musicalità del tutto insieme!
Direi di più, il mio presupposto, che vedo sempre attuato nei balletti di Balanchine, è che la danza non è solo movimento nello spazio; anzi, la danza è movimento che crea uno spazio!
Comunque è sempre utile ricordare che questo spazio dimostra ancora un particolare attributo culturale-storico: è sempre uno spazio gerarchico che premia il “centro” sulla “periferia”.
D’altro canto non dovrebbe sopprendere che certi balletti di Balanchine andavano spogliandosi nel tempo, come risposta all’evoluzione dei gusti estetici.
Ad esempio “Apollon Musagète” e lo stesso “Concerto Barocco” hanno perso il loro costume pesante e man mano hanno raggiunto quel loro minimalismo, senza distrazioni, che mette in risalto sia la struttura coreografica globale sia l’apporto dei singoli ballerini e i rapporti tra di loro. Di una cosa non c’è dubbio: i balletti di Balanchine sono bellissimi da ballare!
Merce Cunningham
Certo, la danza può raccontare, può rallegrare, può suscitare sentimenti, empatia, sensazioni. In questo senso, lo stesso “Romeo e Giulietta” di Prokoffiev mi ha seguito e mi ha arricchito la vita da quando ho comprato in disco da ragazzo (ma quale ironia, con Merce Cunningham e Carolyn Brown in copertina…).
L’ho ballato nelle versioni di Skibine con Vera Kirova, poi con Carla in Italia (nel ruolo di Paride) e mi riempiono di gioia ancor oggi quando ci penso. Il mio ultimo incontro con questa tragedia, nei panni di Romeo, fu nel gran passo a due di Roberto Fascilla sulla musica di Berlioz.
Richard Lee, Vera Kirova
Però, la danza può anche “significare”, cioè rappresentare la condizione dell’essere umano e la sua collocazione sociale a tutt’un altro livello.
Un balletto come il citato “Concerto Barocco” mostra una costruzione che riconosciamo “razionale” con tecnica classica, palco a tre muri, e suppone un’istituzione, compagnia, per la sua produzione.
È dunque storicamente un prodotto dell’età moderna occidentale che esprime il modo in cui ci sentiamo di vivire nello stesso “mondo” non solo d’un Petipa, ma anche d’un Vestris, un Monteverdi, un Newton, un Galileo, o un Descartes.
A Ginevra ho avuto non solo l’occasione di lavorare con Balanchine per “Four Temperaments”, “Serenade”, “Symphony in C” e tanti altri, ma anche di conoscerlo un poco più personalmente.
Come tanti grandi, non si dava arie; lavorava, creava e rispettava coloro che lavorava con lui e cucinava una buonissima blanquette de veau! (spezzatino di vitello alla francese n.d.r.) Con Anthony Tudor ho lavorato al Pennsylvania Ballet e anche al Grand Théâtre; era solo a Ginevra e veniva spesso a cena da noi.
Richard Lee, Carla Fracci
Io l’ho conosciuto come un uomo affascinante, cerebrale. Ma com’è ben noto, poteva essere difficile e anche crudele!
Conosciuto per i suoi balletti drammatici, non voleva comunque che il dramma e i sentimenti fossero comunicati con il viso, ma dovevano invece nascere dal corpo intero; secondo lui, tutto si sviluppava tramite il movimento.
La mia storia, quindi si divide tra l’incontro con Balanchine ed altri, ma sempre di stampo classico, e poi i grandi classici stessi. In Belgio e soprattutto in Italia, mi sono dato, con molta soddisfazione, al repertorio tradizionale.
Certo è, che la sorte ha giocato la sua parte, ma la mia traiettoria era anche tanto il frutto di una serie di scelte precise prese ogni volta che si presentava una via diversa. Rischioso, ma si vive una sola volta!
Per esempio, a un certo momento avrei potuto passare un audizione per American Ballet Theater, e avevo buona probabilità di essere preso, e così avere un futuro assicurato. Ma l’idea di entrare in una compagnia e trovarmi subito ad interpretare i balletti di Agnes de Mille (importanti che fossero), non mi esaltava; non era per me.
Patricia Neary in “Apollon Musagète” (Stravinsky/Balanchine)
Ph. Richard Lee©
La domanda precedente ha una ragione: la “difficoltà” di recepire il messaggio della danza contemporanea, non è spesso immediata. Lo spettatore ha bisogno di essere preparato per decodificare l’azione danzata in scena. L’American Ballet aveva già negli anni ’40, rivoluzionato la danza classica. Ritrova oggi quella rivoluzione nei coreografi contemporanei?
Le mie aspirazioni erano ben centrati sui classici fin dall’inizio; solo molto più tardi ho cominciato ad indagare su quel mio atteggiamento radicato in una formazione sociale profondamente illuministica.
Comunque, includo in questa costellazione classica, il repertorio balanchiniano e tutti quegli altri che considero essere più che altro estrapolazioni di quella tradizione, formazione tecnica classica e stretto rapporto con la musica, bellezza o indagine psicologici o sociali come fine, ruoli diversi per uomini e donne, etc.
È altrettanto vero che il Novecento ha visto tanti tentativi di rinnovamento d’un vocabolario che per molti sembrava fin troppo vecchio, con scarsa rilevanza al mondo attuale.
Martha Graham
La citata De Mille produceva balletti strettamente “americani” tipo “Rodeo”, “Billy the Kid” e “Fall River Legend”. Altri, come “Filling Station” di Lew Christensen, erano basati su personaggi e gesti, della vita quotidiana. Nel Vecchio Continente Roland Petit ci ha lasciato “Le jeune homme et la mort” che incorporava anch’esso, gesti comuni.
E, foriero e senza precedenti per il 1946, era una coreografia creata prima che la musica fosse scelta! Forse oggi poco ricordato, nella sua lunga carriera, ha anche creato una serie di opere che rinfrescava la tradizione del balletto narrativo.
Richard Lee
Più vicino a noi, ammiro molto il lavoro di Jiří Kylián per la bellezza del movimento, la gratificante struttura dei suoi balletti e l’uso sapiente dei danzatori e ho visto la sua compagnia tante volte con piacere.
Più vicino a noi, ammiro molto il lavoro di Jiří Kylián, per la bellezza del movimento, la gratificante struttura dei suoi balletti e l’uso sapiente dei danzatori e ho visto la sua compagnia tante volte con piacere.
E ci sono altri, come Nacho Duato, ma al giorno di oggi, sono affascinato dal lavoro di Crystal Pite.
Trovo particolarmente seducente la sua concezione magistrale dello spazio scenico che diventa esplicita quando impiega grandi masse di danzatori.
Sa pure maneggiare ballerini soli o in piccoli gruppi. Tra molti altri, stupendo il suo “The Statement”, un “Green Table” per i nostri giorni!
Comunque, senza dubbio esiste una “difficoltà” con la danza contemporanea. La danza classica esprime, anzi ha participato in cinque secoli di sviluppo socio-culturale e in tal modo agisce su un sottofondo di “conscience collective” al di sopra o piuttosto sotto, di ogni normale interrogatorio.
Non facciamo tanto caso, ma questo “senso comune” include, ad esempio, il binomio bellezza-nobiltà e un elemento strutturale, il passo a due, in cui la donna si vede “normalmente” sorretta da un uomo.
La danza moderna o contemporanea, invece, per molti versi rappresenta una sfida a tanti luoghi comuni che la danza classica trascina con sè come bagalio. Tecnicamente, il ballerino classico sta in piedi o si spera.
La danza moderna fin dagli inizi, incorporava la caduta, anzi incorporava l’idea stessa della caduta, il lavoro per terra e l’eventuale ripresa, come realtà primordiali nel suo linguaggio coreografico, anche, aggiungo, perché corrispondano alla vita.
Sarebbe utile, magari, dalla Duncan alla Graham, parlare di danza “espressiva” anzichè moderna. In effetti, esse rinunciavano alla bellezza in sè e per sè, ma in comune con il balletto classico ammettevano un fondo psicologico o emozionale.
Ormai il publico riesce a recepire il loro lavoro, perché una volta superato l’impatto d’un vocabolario tecnico diverso, questo stesso sottofondo, anche quando è spogliato al massimo, si riconosce.
John Cage
Dagli anni Cinquanta in poi, è tutt’altra cosa! A cominciare con Merce Cunningham, è di certo comprensibile che il pubblico rimanga confuso, o peggio oltraggiato.
Per entrare in questo mondo sconcertante e senza appigli bisogna almeno conoscere, se non accettare, un’atteggiamento intellettuale prima, quello di John Cage e i compositori della New York School e dei pittori del Espressionismo astratto, non-letterario, non-lineare, dove il rischio e l’aleatorio hanno un posto in primo piano, senza narrativa o fondo psicologico, dove danza, musica e l’impianto scenico coesistono, come direi, in parallelo, senza per forza determinare una traiettoria comune.
I suoni, i movimenti esistono per se stessi, non come veicoli per i sentimenti. All’epoca, i ballerini coinvolti in questo approccio al teatro non lo trovavano disumanizzante, anzi lo trovavano liberatorio.
E poi negli anni sessanta arrivò la danza posmoderna che non solo rifiutava l’espressione, ma anche le tecniche che le serviva, preferendo movimenti naturali. Impossibile che tutto ciò non susciti sgomento nel publico.
Ma cosa significa? In anzitutto, sono convinto che la danza classica, basata sui grandi classici e il repertorio che in seguito è stato prodotto con gli stessi presupposti, non sparirà.
Nonostante appartenga ad una precisa epoca storica, esprime un modo di vedere e vivire che rimarrà non solo come residuo o reperto arceologico, ma anche una risorsa omnipresente;
Roland Petit
bellezza, onore, amore, e ahimè, purtroppo anche i sentimenti più bassi, non credo che abbiano una scadenza, almeno non nel prossimo futuro.
Come pensare che la freschezza, la gioia di vivere, la gioia di ballare così trascinante in un pezzo come lo squisito “Dances at a Gathering” di Robbins possa mai passare di moda.
Ciò detto, devo anche confessare che sì, secondo me, “eppur si muove” qualcosa. Le nuove forme annunciano e fanno parte d’una secolare trasformazione sociale, combattuta e resistita certo, ma inarrestabile. Certo non sappiamo che forma il futuro prenderà, ma tutte le forme culturali, incluso la danza, saranno coinvolte nella sua costruzione.
Roland Petit, Maurice Bejard, Martha Graham, Twila Thurp, Merce Cunningham, identità artistiche ben strutturate. La danza moderna e la rivoluzione culturale del balletto. Sono passate due generazioni da questi miti e sui palcoscenici si ritrovano posteri che propongono codici espressivi tormentati. Capisco che le società cambiano (o si involvono), ma non si cerca più la bellezza del dramma dell’amore. Cos’è? Crisi esistenziale o artistica?
Potrebbe sopprendere, ma le mie prime lezioni erano di danza moderna, technica Graham, perché nella mia città di San Antonio(TX n.d.r.) non esistevano, allora, corsi di danza classica per maschi! In ogni caso, non era il tipo di danza che mi attirava, e in più non si addiceva al mio corpo.
Nonostante ciò, durante la stagione 1963-64, quando ero iscritto all’università di Princeton, ho avuto uno dei più emozionanti momenti che abbia mai vissuto in teatro, vedendo a New York la Graham stessa, che ballava ancora, a quasi settant’anni, in “Clitennestra”. Mi vengono ancora i brividi a pensarci.
Roland Petit, di cui ho già parlato, l’ho conosciuto in tornée a Torino dove ho potuto apprezzare il suo “Coppelia” , sebbene stessi già lavorando in Italia, confesso di aver fatto un pensierino… .
Per quanto riguarda Béjart, mi è sempre sembrato un grande uomo di teatro e certe sue opere mi “parlano” ancora: tra tanti, adoro “L’Oiseau de feu” et “Le chant du compagnon errant”, quest’ultimo praticamente un passo a due per due uomini.
Comunque, l’unico mio incontro diretto e sostenuto con la danza contemporanea fu nell’anno in cui facevo parte della compagnia francese Les Ballets Félix Blaska.
Félix aveva una bellissima compagnia con ballerini bravi, tutti di formazione classica, e soprattutto interessanti. In più, le sue coreorafie erano in generale molto riuscite, musicali e a volte molto spiritose.
Alla fine di quella scrittura, invitato da Patricia Neary, dovevo tornare a Ginevra come solista dove senz’altro avrei interpretato molti altri balletti in un repertorio che tanto amavo. Ma purtroppo è scoppiata la crisi del petrolio e tutti i nuovi contratti furono annulati in Svizzera. Sbarcai invece a Bologna; il resto è storia.
Patricia Neary
Molto più tardi ho cominciato ad apprezzare i lavori di Merce, inclusi quelli basati sulla sua affiliazione con John Cage, che avevo visto per la prima volta negli anni Sessanta.
A parte la colocazione socio-culturale della sua opera, davvero affascinante, certe cose, come “Summerspace” e “Suite for Five”, erano di grande bellezza in sè e la Carolyn Brown, grande interprete del repertorio creato da Cunningham, mi è sempre piaciuta moltissimo.
Un metodo basato sul “principio di indeterminazione”, posso anche a limite ammettere, ma l’assoluta scissione tra musica e danza, fondamentale nell’estetica di Cage e Cunningham, allora io non ci ho mai creduto, forse neanche Merce. Si sviluppa sempre un rapporto tra il danzatore e la musica in cui e con cui si muove!
Sono stato all’università con Douglas Dunn. Douglas è diventato, è rimane tutt’ora, uno dei massimi esponenti della danza posmoderna che affermava che qualsiasi movimento è “danza”.
Aveva, ha, tre anni di più di me, ma facevamo lezioni insieme alla stessa piccolo scuola di ballo lì a Princeton. Non si potrebbe concepire due carriere più diverse, due traiettorie professionali più divergenti, nella danza.
Una, mia, classico-romantico, affermava, e ricalcava, una certa narrativa storica dell’epoca moderna, cioè dalla metà del ‘400 in poi, basata sulla logica e la razionalità, il progresso, e l’individualismo insieme all’autonomia del soggetto umano.
L’altro corrente, invece, in varie vesti, e diversi generi, durante il Novecento si mostrava scettico di tutti questi valori. .
George Balanchine rehearsing “Four Temperaments”
Ph. Richard Lee©
Per una risposta diretta alla sua domanda, non riesco a concepire nessuna forma d’arte distaccata dalla formazione sociale in cui è immersa e di cui costituisce un elemento.
Cioè, per cominciare a capire lo stato odierno della danza classica, devo fare uno sforzo per rispingere la tendenza di pensarla solo come “oggetto di bellezza”, o “divertimento” o anche “linguaggio espressivo”.
D’accordo, saranno tutte queste cose, ma ha e ha sempre avuto, anche un fortissimo carico politico-sociale e non solo tramite il suo contenuto.
Questa contenuto è portata ed espressa nella forma stessa, la struttura, del suo particolare sistema tecnico e concetto teatrale da secoli accettato comeun fatto fuori tempo, naturale, come analogicamente, il sistema tonale nella musica classica. Lì dentro senz’altro si cela un libro; chissà, forse ne ho ancor uno dentro di me!
Maurice Bejart
Lei l’amore lo ha ballato. Romantico, drammatico, allegro. Andare a teatro era un piacere. Assistere alle evoluzioni fisiche di un danzatore, era meraviglia. La danza, a memoria, era leggerezza. Mi pare che oggi i ballerini non volino più. E’ questa l’evoluzione (o rivoluzione) della danza classica?
Oggi abbiamo la possibilità di apprezzare e valutare la nostra storia almeno dall’inizio del Novecento tramite i filmati accessibile a tutti on-line.
Non c’è dubbio che ci sia di tutto e di più: più pirouettes, tutto più “aperto”, estensioni più alti, “passés” che si sono arrampicati dal mezzo polpaccio fino al ginocchio e anche oltre, “jetés” che finiscono come spaccate in aria, a volte di più di centoottanta gradi(!), che li rendono impossibili a legare fluidamente in un “enchainement”.
Una cosa che i ballerini d’una volta avevano era il “ballon” non solo in accesa, ma soprattutto in discesa. Si vede che ho un’ opinione su quest’evoluzione. Mi interessano poco i “più”, la gamba più alta, i giri più numerosi, se manca quella cantilena di cui parlavo prima.
L’Europa. Un passaggio importante della sua carriera. Milano. Carla Fracci. Romeo and Juliette. Spinto a lasciare gli Stati Uniti per la “vecchia” Europa. Per la professione o la storia?
Fin da piccolo sapevo che, in un modo o in un altro, al meno una parte della mia vita l’avrei vissuta in Europa. Ancor prima anche di ballare studiavo il Francese, invece dello Spagnolo che era parlato correntemente da gran parte della popolazione della mia città natale. Comunque, ci sono arrivato un po’ per sorte e un po’ per scelta.
Loredana Furno
La sorte decise che al mio ritorno a New York dopo una stagione con l’Atlanta Ballet, non c’era proprio lavoro. Studiavo alla scuola del Joffrey Ballet, imparavo il repertorio, e participavo alle prove.
Ma qui, mi devo interompere per inserire una nota sul modo in cui allora erano strutturati i contratti sindicali (AGMA) in USA.
C’erano due tipi di contratto, quello per le compagnie che impiegavano fino a quaranta ballerini,“small company contract”, e quello per le compagnie con più di quaranta ballerini “large company contract”.
Le spese contrattuali implicate per una “large company” erano molto più onerose che quelle per una “small company”. Joffrey era una “small company”, e quindi doveva limitarsi a solo quaranta scritture.
Eravamo tre uomini in lizza per la compagnia, ma c’erano solo due contratti disponibili senza superare la soglia di quaranta. Purtroppo, siccome io ero l’ultimo arrivato, avrei dovuto aspettare la stagione successiva.
Però, mentre sembrava che si chiudesse una porta, un’altra si apriva. La ruota della fortuna girava a mio favore.
Balanchine accettò un posto da consulente per il Balletto del Gran Teatro di Ginevra (era un vecchio amico di Herbert Graf, il direttore del teatro) e il vice che installò come maestro di ballo, voleva inserire ballerini di formazione americana.
Felicissimo, fui assunto e rimasi tre anni a Ginevra, dove facevo anche il fotografo lavorando sia per il teatro sia per due giornali.
Poi, ho fatto una stagione al Ballet de Wallonie in Belgio, dove sono andato per scelta invece di prendere un contratto in Germania. In seguito, ho girato per quasi un anno con Les Ballets Félix Blaska. La scrittura a Bologna, a lungo andare, è risultata un felice ripiego in confronto al contratto perso a Ginevra. L’ufficio collocamento a Milano, che ricordo!
In seguito, ho girato per quasi un anno con Les Ballets Félix Blaska. La scrittura a Bologna, in seguito, risultò un felice ripiego in confronto al contratto perso a Ginevra. Ho dell’ufficio di collocamento a Milano, un gran ricordo!
Roberto Fascilla
Ho conosciuto Carla e Beppe (Menegatti) la mattina stessa della prima prova per “Fiore di Pietra” a Bologna, nel 1974. Beppe mi è venuto incontro al bar e mi ha detto in francese, “C’est vous, vous êtes l’américain” — parlavo bene il francese ma neanche una parola d’italiano — e mi ha subito presentato Carla. Sapevano già che ero lì; Faraboni lo aveva preannunciato a Beppe!
In seguito mi ha detto che non dovevo firmare nessun contratto senza palare con lui perché da quel momento in poi, avrei lavorato con loro. Per me, era il mio sogno che si realizzava.
Con me Carla è sempre stata molto generosa. È vero che avevo una precisa funzione nelle produzioni Fracci/Menegatti, cioè il secondo partner di fiducia.
Ballando con lei poteva essere esaltante, ma era anche una grande responsibilità che io prendevo molto, molto sul serio; non si poteva sbagliare.
Dopo tutto, le pirouette, le prese e tutto quanto che faceva con me erano le stesse che faceva con l’etoile di turno in testa al cartellone con lei. Comunque, avevamo un buon rapporto professionale e nei limite del possibile, personale; mi disse che ero “un romantico”!
Di “Romeo e Giulietta”, penso che sia stato uno delle più felici realizzazioni d’un balletto narrativo prodotto da qualsiasi parte in quelli anni. Sposava i quattro passi a due di Cranko (tre con Romeo e uno con Paride) all’azzecatissima coreografia di tutto il resto di Fascilla.
A mio aviso, e ne ho viste tante, Giulietta fu per Carla (con Giselle) un ruolo in cui non aveva e a tutt’oggi non ha, paragoni.
Ma c’era di più. Accanto a lei si schierava un cast davvero perfetto: un Romeo che rispondeva al mio ideale del personaggio in James Urbain, virile e forte, che comunque non mancava di dolcezza, un grandissimo Lawrence Rhodes che tramite la sua bravura tecnica e profondezza d’espressione faceva vivere Mercuzio e lo stesso Fascilla incarnava perfettamente Tebaldo.
Neanche nei ruoli secondari si sarebbe potuto aspettare di meglio. Chi l’ha visto, deve considerarsi fortunato di aver participato in un momento in cui il balletto italiano toccava la sua cima.
Beppe teneva tante redini in mano, e senza le sue competenze quella loro grande impresa di portare spettacoli di alta qualità dappertutto, inclusi i più piccoli centri, non sarebbe mai stata possibile.
Pensi, abbiamo fatto “Romeo e Giulietta” persino a Budrio (BO) dove non c’era posto sul palco per le scene. Era una politica culturale alla quale tutti e due credevano.
E rimango molto fiero di aver contributo la mia piccola parte, e non solo con loro; per esempio, con la Margherita Mora, abbiamo presentato i passi a due di “Silfidi” e “Don Chisciotte” sulla scena miniscula di Ostuni, con costumi di Brancato (sartoria di Milano per costumi teatrali n.d.r.), però!
Un intellettuale con una notevole prontezza di spirito, Beppe sapeva trattare con i teatri e conosceva, anzi amava profondamente, la gente di teatro.
Piccolo aneddoto: dopo una prova andato particolarmente male (succede), con il morale generale che non poteva essere più giù, tutta la compagnia era seduta sul palcoscenico ad aspettare l’inizio della prova successiva.
Ed ecco che arriva Beppe come un contadino che seminava il suo campo, solo che lui spargeva caramelline da un sacco di carta dicenedo: “Dai, su ragazzi, la vita è bella e faremo uno spettacolo stupendo”! Di tutti e due, Carla e Beppe, ho sempre un grande affetto e ne serbo ricordi bellissimi.
A proposito de miei primi anni, anni di divulgazione e democratizzazione dello spettacolo in Italia, devo ricordare Loredana Furno e come e quanto la sua collaborazione e amicizia mi sono state preziose.
Abbiamo ballato un po’ di tutto, un po’ dappertutto, dal “Combattimento di Tancredi e Clorinda” di Monteverdi e “L’histoire du soldat” di Stravinski a tanti brani classici passando per una creazione fatto appositamente per noi, “Adagio” da Loris Gai su musica di Sciostakovic.
Loredana Furno, Richard Lee
Memories: Fondazione Niccolò Piccinni, International School of Ballet, Balletto del Sole. Il sole della nostra città. Il Petruzzelli. I suoi danzatori, i suoi allievi. La emoziono se le dico che moltissimi l’hanno nella propria memoria?
Con Carla e Beppe, abbiamo portato “Gisele” a Bari, al Petruzzelli, nell’autunno del ’74. La città mi è subito piaciuta — insieme vecchia e moderna, con il suo lungo mare che più tardi avrebbe visto tante mie passeggiate — e il teatro, anche se un po’ trasandato, a me sembrava stupendo, e infatti lo era! Il pubblico si mostrava entusiasta e ovviamente assetato di balletto.
Chi di noi potrà mai dimenticare come i professori d’orchestra si davano il turno a suonare in modo che chi non suonava poteva alzarsi in piedi per vedere, e non di sfuggita, ciò che succedeva in scena, e forse vedere anche “la Fracci”….
La Fondazione Concerti Niccolò Piccinni, impresa famigliare, ci ha fatto tornare più volte e mi è sempre rimasto un ottimo ricordo del M° Pugliese, un uomo di classe oltre ad essere un musicista unanimemente stimato.
A un certo punto La Fondazione decise di stabilire una presenza di danza classica locale, con un obbietivo, dicevano, di professionalizzazione. Roberto Fascilla accettò di dirigere l’impresa e chese a me di andare sul posto come Maître de Ballet e insegnante nella nascente scola.
Abbiamo fatto di tutto per raggiungere lo scopo incluso spettacoli con professionisti ben conosciuti insieme all’organico che chiamavano “Il corpo di ballo della Fondazione N. Piccinni”.
Il gruppo, non molto grande, un solo corso, lavorava con molta dedizione e diligenza. Purtroppo, La Fondazione non se la sentì di andare oltre un determinato punto (o livello di investimento) ed è in quel momento che naque l’idea del Balletto del Sole, e una scuola per la formazione seria e senza compromessi legata alla compagnie.
Sulla carta l’idea non faceva una grinza: Bari, città importante con un publico molto entusiasto per il balletto, un bellissimo teatro di tradizione, e tutto privo di qualsiasi institutizione professionale di danza classica.
Della scuola ho magnifici ricordi degli allievi e del lavoro in sala e trovo ancora molto gratificante che quelli che ci hanno studiato hanno avuto il massimo del mio impegno e che qualcuno di loro abbia potuto continuare e fare carriera.
Per quanto riguarda la compagnia, pianificammo un repertorio con balletti di coreografi di livello internazionale, e per una giovane compagnia i primi risultati in scena erano promettenti.
Per la prima stagione abbiamo presentato balletti di cinque coreografi diversi e con il successo di “Waltz Fantasie” nella seconda stagione, Balanchine mi dette il suo permesso personale di rimontare qualsiasi balletto suo per il quale potevo assicurare l’organico.
Avevo in vista di amplire il repertorio per la terza stagione con almeno “Concerto Barocco”, “Pas de Dix”, un balletto d’un coregrafico europeo (come avevo fatto con Heinz Spoerli rimontando il suo “Wendung” per la prima stagione), e un pezzo d’un giovane italiano.
Mi sembravano appropriati per attrare e soddisfare il nostro publico e dare ai ballerini la possibilità di crescere.
E per l’anno dopo, volevo presentare in Magna Grecia “Apollon Musagète” di Balanchine. Sono contento, almeno, che il giovane di talento che avevo in mente per quest’ultimo, l’abbia poi ballato con successo altrove. Beh, si può sempre sognare. But it was not to be.
Rai3 nel 1982, le dedicò un focus durante un evento estivo a Matera. La Compagnia Balletto del Sole presentò “Valse Fantaisie” di Michail Glinka con le coreografie di George Balanchine e riprodotte da Patricia Neary e “A pretty girl is like a melody”, con le sue coreografie. Omaggio al Maestro George Balanchine e un omaggio alla bellezza della danza vissuta e ballata con ironia e gioia. Vivemmo tutti la leggerezza della danza, quella che appaga. La danza oggi, i giovani di oggi, i coreografi…lei, maestro, quale considerazione ha?
Adesso sono in pensione dall’università dove ho fatto trent’anni come professore di sociologia e direttore d’un centro di ricerca di rilievo internazionale. Non posso che essere soddisfatto del bilancio professionale di quelli anni in academia. Ciononostante, la danza è sempre stata la passione della mia vita e l’Italia il paese del mio cuore.
Il teatro si fa con gli altri. E quindi vorrei finire con un piccolo sollecito a scopo di sottolineare l’importance del rispetto, l’amicizia, anche l’amore e l’importanza della comunità in cui si lavora. Il teatro è, infatti, una comunità di vita oltre una professione ragguardevole.
Al livello di formazione, non si può negare, come detto prima, che la resa tecnica di oggi sia ben più elevata rispetto a quarant’anni fa.
Mi chiedo, però, anche solo retoricamente, se non ci sia stato un prezzo: innanzitutto nella qualità del movimento di cui abbiamo parlato prima, e poi nell’assimilazione della tradizione, due cose che, secondo me, si sviluppano a lungo nella maturazione dell’artista.
Esiste di certo la quattordicenne in grado di eseguire una variazione del grande repertorio, ma sarebbe altrettanto convincente solo camminare o spostarsi ed integrarsi in un contesto scenico?
In ogni caso, il più delle volte quella variazione sarà presentata su una scena spoglia in qualche competizione! D’accordo, le competizioni sono oramai una realtà nella danza.
In ogni caso, più delle volte quella variazione sarà presentata su una scena spoglia in qualche competizione! D’accordo, i concorsi sono ormai una realtà nella danza, e hanno senz’altro la loro “raison d’être”. Comunque, sarà forse anacronistico, ma trovo la soluzione offerta degli “stage”, a lunga scadenza, più positiva che i vari “prix”!
E l’Italia può vantarsi di aver ospitato l’esemplare iconico, lo Stage Internazionale di Danza insieme al Festival Internazionale del Balletto, a Nervi.
La voglia di fare, di lavorare, di imparare, di fare conoscenze, di scambiare idee, davano vita ad un’incredibile energia positiva. Si trovavano tutti i livelli e i più grandi maestri.
Il bello era che, anche se l’impressione fosse d’una grande kermesse, i presupposti non potevano essere più intensamente seri.
Ecco, adesso saluto calorosamente tutti coloro che hanno scelto o sceglierà la danza, incluso chi, come me, si sente scelto dalla danza; ballare è nella natura umana.
E’ con garbo che si conclude questa intervista considerata un’altra pagina della storia della danza moderna.
Richard Lee è a tutt’oggi, una delle testimonianze attive di una danza di fine XX secolo, che hanno reso l’arte coreutica la più emozionante arte del teatro.
Si trae insegnamento e resta nella memoria, l’assoluta dedizione di un danzatore il cui scopo è stato quello di trasmettere il suo vissuto interiore, come lezione di vita.
Gianni Pantaleo.
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