di Mauro Donzelli.
Le ha raccontate tutte in un periodo circoscritto, chiuse nel proprio smarrimento se non dolore, in una casa diventata eremo di serenità e di limitata comunicazione con un esterno, una società e i media con cui hanno spesso combattuto, cercando di controllarli.
Tutte e tre presentate in concorso a Venezia, le tre donne del Novecento – prima Jackie e Spencer e ora Maria – Pablo Larrain le ha raccontate sempre in maniera personale, cercando di proiettare una luce inconsueta sulla proiezione personale di figure dall’enorme rilevanza pubblica.
In questo ultimo caso fa quasi incontrare due di loro, con una (intensa) scena in cui Maria Callas si trova sul letto di morte del suo amore sconfinato e dannato, Aristotele Onassis, interrotta dall’arrivo della moglie, la “ufficiale” Jackie, finendo ancora una volta per essere la donna di scorta, costretta a svignarsela segretamente dall’uscita secondaria.
Sono gli ultimi giorni di vita, ormai rinchiusa nella sua casa di Parigi, quelli raccontati in Maria. Si trova con la sua famiglia non ufficiale, la sua corte, sedotta e sinceramente affezionata alla regina della musica, più che personale di servizio.
Bruna, la cuoca (Alba Rohrwacher) e Ferruccio come autista e domestico tuttofare (Pierfrancesco Favino).
Le giornate passano tra le troppe medicine assunte da anni, lenitivo clinico ma anche esistenziale per i mal di cuore di una vita bellissima e piena di amori, ma anche tragica e tumultuosa.
La salute è quella che è, ma mantiene come filo di speranza il sogno di tornare sul palco per cantare, anche se da anni ha dichiarato di voler smettere.
Occasione in realtà per alimentare un’ulteriore conflitto insanabile, uno dei tanti con cui Callas ha vissuto senza freni la sua vita e le sue passioni.
Quella fra la voce di una donna ormai malata, anche se poco più che cinquantenne, logorata dalla generosità senza precedenti con cui si è sempre offerta al suo pubblico, non sempre capita, e quella degli anni d’oro, rievocata come fantasma, più che in registrazioni, nei lunghi pomeriggi trascorsi guardando al passato.
È l’unica direzione che accompagna, con flashback e momenti quasi onirici, lo sviluppo narrativo di Maria.
Scritto con maestria da Steven Knight (Spencer, La promessa dell’assassino), ci porta a fugaci momenti, per lo più il primo e l’ultimo incontro, con Onassis, grande amore e tormento della sua vita amorosa.
Come dice lei stessa, è impossibile distinguere l’opera lirica dalla (sua) vita, tanto che alcune esibizioni tra le più memorabili della sua carriera, tutte interpretando scene dolorose, sembrano lentamente trasformare la protagonista nella somma delle tragedie che ha cantato.
Impossibile anche solo pensare a un biopic del genere senza la Maria Callas giusta. Angelina Jolie è evidentemente entrata totalmente in empatia con lei, riconoscendo un’altra diva costretta a vivere in pubblico i suoi tormenti amorosi, desiderata e adorata a livello globale senza però “poter fuggire”, come dice in un fugace incontro con John Kennedy.
Jolie riesce a rendere gli inconfondibili occhi di Maria Callas, capaci di passare in un attimo dalla spensieratezza di una fanciulla sognante all’abisso disperato senza consolazione.
È davvero l’interpretazione della carriera per l’attrice americana, che ha anche contribuito alle parti canore grazie a sette mesi intensi di studio di canto lirico.
Il cinema in generale ha sempre più bisogno di grandi interpretazioni da parte dei pochi divi rimasti in circolazione, per portarli anche al di fuori dalle pagine gossip.
Maria è una splendida celebrazione della musica lirica, del suo potere evocativo, della voce più bella e personale.
Un melodramma che con i suoi eccessi fuori dal tempo e dalle stagioni della vita e della nostra società rimane sempre attuale nel rappresentare i ricordi di una vita vissuta senza compromessi.
Commuove spesso e travolge con un ritmo implacabile senza perdere eleganza nella messa in scena.