di Trifone Gargano.
Dedico questi passaggi della lunga e articolata recensione che Pier Paolo Pasolini scrisse, in due riprese, nei mesi di luglio e agosto del 1974, al romanzo dell’amica e scrittrice Elsa Morante, La Storia, a quanti, oggi, si stanno limitando a guardare il (bel) film della Archibugi, senza aver letto una sola pagina di quel romanzo, sperando che l’entusiasmo che traspare da certi loro commenti sui social li possa spingere anche a leggere il romanzo.
L’ultimo romanzo di Elsa Morante è un poderoso volume di 661 pagine, e il suo «soggetto» è proprio quello che dice il titolo, cioè la Storia.
E difficile concepire un progetto più ambizioso di questo: ma si tratta di un’ambizione evidentemente giustificata, se la sola ambizione ingiustificata è quella di scrivere opere limitate e perfette.
Illimitatezza e imperfezione sono caratteri della necessità. Illimitato il romanzo della Morante lo è, perché esso indubbiamente trasborda oltre il confine delle 661 pagine, verso immensità di temi, motivi e superfici non verbali.
Imperfetto anche lo è. La Morante avrebbe forse dovuto lavorarci ancora un anno o due. Infatti non c’è dubbio che il grosso libro si divide almeno in tre libri magmaticamente fusi tra loro: il primo di questi libri è bellissimo – è straordinariamente bello – basti dire che mi è capitato di leggerlo nel bel mezzo di una rilettura de I fratelli Karamàzov e che reggeva mirabilmente il confronto!
Pier Paolo Pasolini e Elsa Morante
Il secondo libro invece è completamente mancato, non è altro che un ammasso di informazioni sovrapposte disordinatamente, quasi, si direbbe, senza pensarci sopra; il terzo libro è bello, benché molto discontinuo e con molte ricadute nella confusione un po’ presuntuosa del libro di mezzo […].
In questo interminabile capitolo del romanzo, tutti i personaggi sono declamati, improbabili, irreali: quindi manieristici. Puro manierismo è l’infanzia di Useppe; puro manierismo è la giovinezza di Nino, puro manierismo la grinta di Davide, ecc.
In essi la Morante non «rappresenta» la vita, ma, appunto, la celebra: senza tuttavia (a mio parere) aver meditato abbastanza su tale ideologizzazione e di conseguenza sul proprio progetto narrativo. Le «spie» che testimoniano questa approssimatività rappresentativa e stilistica sono molte.
1) La Morante, che accetta la convenzione della «favola», e quindi la necessaria funzionalità di ogni sua parte, non è fatta per gli excursus (alla Gadda, per intenderci).
Eppure queste due o trecento pagine del libro, sono fatte tutte di excursus: in cui manca però, appunto, l’inclinazione e la follia necessaria a rendere tali excursus autosufficienti, funzionali di per sé.
Essi sono in genere diligenti referti la cui funzione è quella di far trascorrere il tempo della macchina narrativa: un referto riguardante Useppe fa «trascorrere il tempo» concernente Nino, un referto riguardante la famiglia napoletana fa «trascorrere il tempo» riguardante Useppe, e così di seguito.
Pier Paolo Pasolini e Elsa Morante
La lunghezza del tempo (necessaria a un romanzo come questo) è sentita come prolissità verbale: e un elementare gioco combinatorio tra varie sotto-storie è sentito come capace di sostituire la «successività» naturalistica: ossia l’unilinearità della storia (privata o pubblica).
Questo equivoco fa sì che in realtà permangano e incombano minacciose nel romanzo sia la successività naturalistica che l’unilinearità storica.
2) Tutto ciò è aggravato dal fatto che la Morante non ha saputo o voluto scegliere un personaggio che – in questa parte del libro – le mettesse a disposizione il suo sguardo in modo che i fatti e le cose risultassero «viste da lui».
Ma ogni volta che succede qualcosa, la Morante – che è lei ad amministrare e gestire separatamente tutti i personaggi – si sente in dovere di informarci delle «reazioni» di ciascuno dei presenti a quell’avvenimento.
E lo fa con una diligenza che rasenta l’ossessione. Talvolta la meticolosità di tali informazioni è puro arbitrio: non c’è personaggio, casualmente nominato – e quindi totalmente fuori dalla storia – che non sia gratificato di un’intera «relazione» che lo riguarda.
Per esempio, un certo Giovannino, figlio di una signora presso cui Ida subaffitta una camera. Egli è soltanto nominato come assente, in quella casa (si trova in Russia): ma nulla impedisce alla Morante di imporci, qualche tempo dopo, una lunga e circostanziata descrizione della sua morte in Russia, che non riusciamo a capire se sia bella o brutta, tanto poco ci importa di quel personaggio.
E così l’amore di una certa ragazzetta per il solito irresistibile Nino: ogni volta che Nino compare, la Morante ci impone un‘osservazione sull’amore silenzioso e senza speranza di questa ragazzetta, che non ha nel romanzo sbocco alcuno: e nemmeno un senso che valga per se stesso.
Ho dato due esempi, ma potrei darne a dozzine.
Elsa Morante
3) La Morante è ideologicamente certa che non ci sia altro mezzo linguistico che un certo umorismo per descrivere le imprese dei suoi eroi.
Ma poi il linguaggio di tale umorismo è di una elementarità disarmante: esso consiste quasi esclusivamente nell’uso ossessionante dei due avverbi «presentemente» e «attualmente» (per indicare un avvenimento vissuto con grande passione e affettività da parte dei personaggi in una situazione, per contro, molto umile e misera), le allocuzioni «a quanto pare» e, un po’ meno frequente, «che io sappia», e gli aggettivi «futile» e «grandioso» (per prendere in giro gli oggetti del suo amore, i suoi eroi).
Il corollario della povertà del contingente di lingua umoristica, è l’approssimazione e la goffaggine della «mimesi» del linguaggio di quegli eroi, romani o napoletani che siano (per non parlare dell’alto-italiano Davide).
Il romano parlato di Nino e dei suoi amici ricorda addirittura (la Morante mi perdoni, qui devo essere duro) quello di certi trafiletti di costume del «Messaggero»: mentre il parlato di Davide non ha riscontro in nulla: il ragazzo si presenta come bolognese, in realtà è mantovano, ma parla una specie di veneto.
Non c’è tuttavia angolo nell’Alta Italia in cui cadere si dica cader.
4) Per ogni dove, là, nell’Alta Italia, è cascare che ha trionfato eliminando ogni altra forma concorrente. Che Davide dica cader è offensivo per il lettore: ma è soprattutto offensivo per lui.
Dov’è il così grande amore della Morante per lui, se essa è poi così pigra da non fare il minimo sforzo per ascoltare come parla?
Vuol dire che in questo amore c’è qualcosa di precostituito, che impedisce il particolare e il concreto, come fatti irrilevanti, di fronte alle «grandiose» Leggi dell’Amore.
Pier Paolo Pasolini
D’altra parte il fatto stesso di demolire o almeno sminuire e ridicolizzare, sia pure affettuosamente, tutto ciò che i suoi eroi fanno, significa che essi sono amati in base a ciò che sono, cioè per induzione aprioristica, non in base a ciò che fanno: che è visto, appunto, come irrisorio e vano.
Cosa questa che li rende di colpo miserevoli automi di una realtà incompatibile con le loro illusioni. Anche negli apogei della vita e dell’azione, in cui la vita si oppone alla storia proprio in quanto vita – meraviglioso fenomeno da viversi estremisticamente, come fanno appunto gli eroi della Morante, che per questo li ama – tale opposizione è surrettizia.
La mortuarietà della vita non può opporsi che nominalmente a una Storia vista per definizione come mortuaria.
4) Tecnicamente la Morante non si è accorta che nei capitoli di questa parte del libro non doveva ripetere, quasi meccanicamente, ciò che viene esposto nei trafiletti informativi tra un capitolo e l’altro.
L’incomunicabilità tra capitoli e trafiletti, per essere poetica, doveva essere radicale.
Trifone Gargano.
L’intera (doppia) recensione pasoliniana a La Storia di Elsa Morante la si può leggere al seguente link:
http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/approfondimenti/ppp-su-la-storia-di-elsa-morante/
(doppia recensione pasoliniana poi confluita nel volume Descrizioni di descrizioni, Garzanti 1996)
Il romanzo La Storia, di Elsa Morante è disponibile nel catalogo Einaudi.