venerdì, 26 Aprile, 2024 5:38:50 PM

Giancarlo Ceglie, artista di strada, artista delle stelle

di Gianni Pantaleo.

Nel girovagare delle strade percorse in tutti i miei anni e trovandomi mezzo vagabondo in quel d’Europa, sempre mi soffermavo per le strade delle città con la bocca aperta, a essere spettatore di un’arte che non avevo mai visto dal mio “profondo” sud, negli anni ’70.

Forse perchè in quegli anni (ma anche oggi), l’arte era considerata privilegio per pochi eletti. Erano quelli che avevano studiato Shakespeare o Goldoni.

Quelli che ascoltano Rachmaninov o Schönberg. E se al cinema dicevi che eri andato a vedere “Lo chiamavano trinità”, sembrava quasi fossi andato a vedere shit. La “spocchieria”  della cultura ipocrita è anche cieca.

Certo che gli autori citati sono dei monumenti delle arti, ma poi ci fu un artista che “scardinò” tutta questa “intellighèntzia” (come riporta la Treccani n.d.r.), portando in scena pernacchi, fischietti, ululati, sberleffi e sguainati sorrisi di denti, armi del sarcasmo e dell’ironia per una certa classe di schizoidi cultori del Teatro: Dario Fo, il clown, maestro di tutta una generazione di artisti di strada. Tra loro, Giancarlo Ceglie, mimo storico, artista di strada.

A Giancarlo Ceglie, dedichiamo, intervistandolo, questo servizio, omaggiandolo per il servizio che da anni ci regala tra le strade della città di Bari.

E’ spesso definita una “scuola”: la strada. Maestra di vita per moltissimi artisti. La visione attenta di come “vive” la strada, è per un artista, materia per la sua attività. E’ stata questa la ragione del suo essere artista di strada?

In realtà il mio primo amore è stato il teatro. Ho fatto diversi stage, una scuola di teatro chiamato “Il teatrino della colonna” e il maestro era Luigi Angiuli e ho iniziato a 19 anni circa studiando tutte le materie del teatro, drammaturgia, dizione, studio Stanislavsky e tutte le tecniche teatrali.

Fu quella la mia prima esperienza e i primi spettacoli, ricordo studi su Pirandello, Goldoni, presentandoli nei teatri della città. In assoluto, ho ricordi al CRAL dell’Enel, in via Napoli, dove rappresentammo “La Sagra del Signore della nave”, una versione dialettale di Luigi Pirandello.

Era il 1979, se ricordo e fu un clamore: entravamo in scena con una 500 in questo enorme capannone dell’Enel, dove al centro era piazzato il palcoscenico. Questa fu la mia prima esperienza teatrale.

Bari ha perfettamente memoria di lei. Corso Cavour, centralissimo corso della città, è stato il suo palcoscenico. Se ci racconta un po’ di storia: la sua prima performance, la sorpresa della gente, il pubblico improvvisato. Che impressioni ebbe?

Ammetto con emozione quanto le strade della mia città, furono i “girelli” nei quali appresi il mio mastiere.

Ma l’esperienza della mia città non mi era più sufficiente. Da Bari, girai l’Italia. Genova, Roma, Napoli, con spettacoli tradizionali ma non era ancora abbastanza: c’era un problema economico.

I ritardi delle buste paga, i compensi non sempre rispettati, diventavano un problema di sopravvivenza che con il solo teatro. Scoprii così, Ugo Suarez, un mimo peruviano che si era trasferito in Italia e dal quale molto imparai.

Improvvisamente mi ritrovai a camminare per le strade delle città d’Italia e cominciai ad essere accerchiato dai passanti.  Sceglievo la piazza, la strada, mi guardavo intorno e con la “missione” del far sorridere la gente, facevo spettacolo.

Da quel famoso pantomimo, finito lo spettacolo, passavo col cappello, il famoso cappello, quel cappello che speri si riempia, quel cappello che premia il tuo lavoro e che appaga la sensibilità di un artista e anche la sua pancia.

Un altro famoso amico e maestro, fu Giuseppe Pasculli, che rividi in uno spettacolo pieno di magia. La gente, il pubblico, tu che ti confronti e che diventa un incantesimo.

Con Giuseppe, con il quale diventammo amici di lunga data e con il Teatro Sud, insieme con Renato Curci, ascoltavamo Giuseppe che spiegava meglio i passaggi tecnici dandomi lezioni di vita che tutt’ora sono fonte della quotidianità.

Nelle città del nord Europa, l’artista di strada è uno dei protagonisti più amati dalla gente. Io, da quel “profondo” sud dell’Italia, camminando per le strade di Bruxelles, di Monaco, di Norimberga, all’epoca ero studentello, le piazze e i boulevard, erano brulicanti di artisti giocolieri, mimi, clown e tanta musica. E’ stato questo il percorso intrapreso per “importarlo” qui?

E’così: l’artista di strada è la figura più amata del mondo delle arti sceniche. E’la più simile alla realtà, la più naturale. Non ci sono “effetti speciali”.

Quella esperienza incredibile vissuta la migliorai con l’esperienza. In quel periodo frequentavo la casa di Laura Cea, come un po’ le case di tutti noi e, maturando idee, arrivammo al Festival Jazz di Perugia dove frequentammo la Fattoria di Jacopo Fo, figlio di Dario Fo e la sera, tutti eravamo per le strade di Perugia che in occasione del festival, era gremita di turisti.

Erano i primi anni ’80 e io imparavo con attenzione i miei maestri che erano appunto Giuseppe Pasculli e Jacopo Fo. Il mio primo spettacolo da solo fu a Ravenna, nella Piazzetta del Mercato di Ravenna.

Ricordo che al centro di questa piazzetta, ebbi grande con diffcoltà ad attirare l’attenzione dei passanti. Solo una ragazza si fermò ad applaudirmi e finito lo spettacolino, vidi che nel cappello non c’era una moneta, ma una chiave, restai sorpreso e le chiesi del perché. Lei mi disse “Dove dormi stasera?”.

Questo fu il mio primo compenso. Le piazze successive furono Venezia e Vienna e con il tempo acquisii esperienza e professionalità tanto che finalmente questo lavoro cominciò a procurami di che mangiare.

Lei, nella sua immutabilità fisica ed espressiva, provoca impressioni di sorpresa. Quella sua staticità è l’opposizione al movimento. Può sembrare un paradosso: ma le sue figure sono più dinamiche di un gesto. Pensa che la gente percepisca questo suo messaggio?

L’immutabilità è la percezione immediata acquisita dal passante. E’ un’immagine seduttiva. L’acquisizione emotiva è altissima e la sensazione che si percepisce è la percezione di una “falsa” realtà perché il passante sa bene che non sei una “statua”, ma quell’immobilità lo destabilizza.

La realtà si mescola con la finzione creando il dubbio, l’incredulità, l’incredibilità. Queste emozioni sono caratteristiche artistiche del mimo. Se non si suscitassero queste sensazioni, saremmo attori, il che è un’altra disciplina artistica.

Lei si considera un mimo?

Sono un artista. Il mimo si evolve e non è immutabile o statico. Il mimo esordisce con le pantomime. Cosa sono le pantomime?

Sono storie raccontate attraverso il corpo, i gesti, le espressioni. Si raccontano microstorie senza l’uso della parola. Al più si usano dei suoni onomatopeici.

Io sono un mimo in quanto attraggo il passante con la mia fissicità e quando il passante lascia una moneta nel cappello, esordisco con la pantomima, cioè comincia lo spettacolo.

Il movimento fatto di incipit di storie: racconto un fatto aggiungendo l’illusione, la magia, una realtà fantastica. Insomma uso le mani, piccoli giochi di prestigio, le innumerevoli espressioni di sorpresa, meraviglia, tristezza, emozioni tradotte col viso, tenendo la spettatore incantato.

Durante il racconto, trasporto il passante in un “mondo”, catturando la sua attenzione. Posso dire però che in questi anni è molto cambiato il rapporto col pubblico.

Nei miei giri tra le piazze di Barcellona, Parigi e le altre città europee, durante le mie pantomime, il cerchio si formava perché il pubblico sviluppava una socialità istintiva, creando una totale attenzione per l’artista.

Oggi, evidentemente con il linguaggio dei mass media, il sovraccarico di immagini di comunicazioni veloci e immediati, ha creato un pubblico meno attento e meno incline a fermarsi e seguire  una storia.

Mentre i miei spettacoli potevano durare mezz’ora, tre quarti d’ora, quando ero in strada negli anni ’80, oggi un mio spettacolo, può durare massimo quindici minuti, ed è già tantissimo catturare l’attenzione per quel tempo, creare quella magia, sviluppare una coesione sociale un tempo molto più percepita e sentita.

Quindi il suo lavoro è abbastanza complesso. Con il linguaggio tecnico, direi multimediale?

Il mio lavoro è complesso fatto di amore, complicità, fantasia. Il racconto è fatto con la magia. Oggi è necessario essere davvero bravi per “fermare” lo spettatore.

Le sue esigenze sono moltiplicate e la domanda deve supportare quelle sue esigenze emotive. In questi ultimi dieci anni, nella mia città ho avvertito questo cambiamento di disponibilità del pubblico a seguire il mimo.

Non è naturalmente un comportamento notato solo da me, ma anche da altri miei colleghi con i quali mi confronto discutendone.

La carenza di attenzione richiede tecniche raffinate di intrattenimento del pubblico, sviluppare una magia solo se hai una padronanza del tuo essere un mago della comunicazione. Peculiarità che mutano il tuo essere solo un mimo. un giocoliere o un clown.

Crede che la “contaminazione” tra pseudo show-men e trash di veline sparse, influiscano sulla “pura” arte espressa con il corpo?

L’artista di strada di oggi deve avere acquisito le dinamiche del linguaggio contemporaneo. La mia contaminazione è stata seguire “Arlecchino” di Dario Fo.

Seguire questo grande artista del teatro, in cui Giuseppe Pasculli era uno degli attori di quello spettacolo, mi permetteva di essere fiducioso in me stesso.

Tutte quelle sere nel Teatro Tenda a Roma, furono un laboratorio di teatro, perché Fo fu un antesignano dell’arte dell’interpretazione, in cui tutti i lavori, contenevano le “contaminazioni” che avrebbero portato ad una rivoluzione del teatro di tradizione.

Mimi, pantomimi, giocolieri, recitazioni, i suoni vocali ricavati dagli ambienti circostanti, il suo stesso linguaggio “inventato”, il grammelot (emissione di suoni senza senso n.d.r), tutto questo è stato il bagaglio che mi ha permesso di crescere e arricchire il mio lavoro di artista di strada.

E come non mai, essere per strada significa avere capacità seduttive, ipnotiche, quasi magiche per captare curiosità e interesse di comunicazione con il pubblico.

L’improvvisazione è studiata, direi quasi premeditata per far sì che la “sorpresa” del pubblico sia l’inaspettata improvvisa manifestazione che un artista di strada fà. Un mimo è prima di tutto un interprete. Tutto accade all’improvviso.

E’ la propria preparazione artistica che adatta lo svolgimento di uno spettacolo dagli improvvisi imprevisti durante lo spettacolo stesso, come il pianto di un bambino che tira la madre per andare via, durante l’evento.

Non puoi ignorarlo, anzi, lo coinvolgi nello spettacolo quasi rendendo il piccolo, uno dei protagonisti della storia che stai rappresentando.

Ti appropri di quel momentaneo “disagio” del bambino e lo fai tuo diventando parte dello spettacolo stesso. Così facendo, ognuno dei passanti, fermi lì a vederti, diventa egli stesso attore, protagonista, egli stesso…magico.

Insomma: la quarta parete, come è tecnicamente detto in teatro: uno spazio che contempla il palcoscenico e che dentro il palcoscenico.

Tutto ciò per strada non esiste, non ci sono pareti, non ci sono quinte, c’è uno spazio circoscritto immaginario, c’è improvvisazione totale, attenzione per lo spazio occupato in quel momento, al suono che riempie quello spazio e che finito lo spettacolo, non esisterà più.

Una dimensione surreale creata in quel momento, in quella piazza di quella città, di quel luogo.

Un’ultima domanda, e sarò “scortesemente” polemico: ma le Istituzioni, gli Assessorati alla Cultura e Spettacolo, gli agenti, si “accorgono o si sono “accorti” che Bari ha un personaggio come lei che ha per teatro le quinte degli alberi del corso, per palcoscenico le mattonelle della strada e per fondali i palazzi di fine ‘800? O un tight e un cappello a cilindro non sono più sufficienti per fare “teatro”? Mica vorremmo indossare pailletes e prorompenti pettorali di silicone!

Potrò sembrare un tenero, ma io sono già appagato di quanto la mia città mi permetta di viverla come un gran teatro.

Analizzando la parte “politica” di un’amministrazione cittadina, gli assessorati, i consiglieri, tutti mi conoscono e posso dire questo: la politica è l’antagonista, se non addirittura il contradditorio delle Arti di Strada.

La politica ignora, e lo dichiaro senza polemica ma come dato di fatto che io, come altri miei colleghi, non sostiene con progetti queste attività artistiche, decretandone la morte della bellezza e della creatività dell’artista di strada.

Nel 1992 e 1993, diressi due cortei storici in occasione del patrono della città di Bari, S. Nicola, occupandomi della direzione artistica e dell’organizzazione. In quello straordinario evento, che richiama moltissimo turismo proprio per la sagra, furono organizzati laboratori ai quali parteciparono un centinaio di giovani.

Il corteo fu preparato con Nicola Saponaro, drammaturgo barese che scrisse proprio tutto il percorso della vita del santo di profondo impatto emotivo con le finalità, poi ottenute grazie alla preparazione dei figuranti, come una vera opera teatrale.

Quelle due rappresentazioni furono eventi che restarono fini e se stessi, dove, in seguito, la classe politica, non si interessò alla formazione artistica dei partecipanti al corteo ma al solo racconto del taumaturgo di Mira.

Un’amministrazione quindi che tenda a valorizzare le risorse artistiche locali non solo a livello folkloristico, può essere un’amministrazione più attenta ai valori storico/culturali.

L’assenza di attenzione per gli artisti come me, che si presentano senza particolari richieste amministrative, deprime l’entusiasmo con cui ci poniamo con la città e con i cittadini.

Mi intristisce la miopia culturale, l’aridità culturale, l’assenza di classi dirigenziali per tutti coloro che come me, si adoperano con le proprie facoltà artistiche, per una città che abbia la magia per le sue strade.

Danzatori, attori, giocolieri, musicisti, tutti i lavoratori dello spettacolo che vivono solo del loro lavoro, una risposta dai Comuni o dalle Regioni, garantendo un minimo di partecipazione istituzionale per distribuire ad ogni angolo, ad ogni piazza, ad ogni strada, quel sostengo che permetta di vivere donando un sorriso, un’emozione, un sogno.

Dopotutto, gli artisti di strada, sono l’equivalente degli operatori sociali, operatori delle arti per rendere la gente, migliore.

L’ultima nostra “lotta” per la richiesta di un reddito di continuità degli artisti di strada, insieme a Ivan Dell’Edera, musicista e il burattinaio Enrico Francone, che riconosca il valore del nostro “esistere” in una comunità quale è una città.

Ricchezza di tradizione e cultura, fondamenta di una società. E per far questo, non abbiamo bisogno di lustrini, piume ed effetti speciali.

Era il 1954, nella sale dei cinema italiani, Federico Fellini, presentò “La strada”. Straordinario film di due “vagabondi” che si guadaganvano la vita, esibisendosi in umili spettacolini girando su uno scassatissimo treruote.

Quella vita trascorsa descrivendo il vissuto di due artisti, esempio di quanto ingrata è la vita dell’artista di strada. Giancarlo Ceglie ha la lealtà, non comune tra gli artisti, di essere la voce del bisogno di tutti coloro che come lui, percorrono le strade di una città, distribuendo l’unico bene che ognuno di loro ha: l’ingenua felicità che appaga l’anima e “strappa” un sorriso e una moneta nel cappello.

Che possa questo articolo, essere un punto di partenza per sensibilizzare le Istituzioni, affinchè si attivino canali mirati per sostegni, anche minimi, ai numerosi artisti che fermi ai semafori, intrattengono gli ansiosi autisti del semaforo verde, ai musicisti nelle vie dello shopping consumistico, agli attori, ai giocolieri, ai madonnari, ai clown…

A quella politica che dimostri interesse per un arte parte di una città, nel cui tessuto sociale, c’è soprattutto amore per la città.

Gianni Pantaleo.

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