sabato, 27 Aprile, 2024 1:12:19 PM

Rutigliano (Ba) – Mimmo Linsalata, la ricerca della perfezione

di Gianni Pantaleo.

Ha ben solide basi intellettuali. Si pone senza enfasi e con una maturità acquisita durante il cammino, impervio, della sua professione: danzatore.

Forse amarezza, la si percepisce nel suo spiegarsi senza rancore. La delusione, la lacrima, il dispiacere, è parte del suo lavoro. Da puledro di razza, corre.

Non è detto che chi è un buon danzatore, sia anche un buon coreografo o viceversa. Fake-artists, purtroppo, è pieno questo mondo e per entrambe le professioni, indispensabili sono più che l’acquisizione nozionistica della cultura, l’apprendimento, l’analisi e l’elaborazione del pensiero. Doti non certo comuni ai tanto millantati “artisti”.

Mimmo Linsalata attraversa questi passaggi, che sono senz’altro processi filosofici, applicandoli nella sublima arte della danza. E ce lo spiega.

Un inizio carriera spronato da una delle figure più importanti della sua vita: sua madre. Lungimiranza materna, quindi. L’intuito lo ebbe la sua mamma?

Sì, sì. L’intuito perché mi guardava di fronte alla televisione. All’epoca avevo tredici anni. In realtà da ragazzino, giocavo a pallavolo, ero il libero della squadra di pallavolo di Rutigliano, ma più guardavo la tv e più sentivo la musica, più mia madre, vedeva in me un innato senso artistico.

Fu lei che un giorno, decise di portarmi in una scuola di danza, dicendomi: prova. Da quel giorno, nacque il mio amore per la danza.

“Playroom” (2021)

Poi il primo salto di studi: il Centro Italiano Danza a Roma. Un suggerimento dei suoi primi insegnanti o una scelta personale?

No, questa fu una scelta che fecero i miei primi insegnanti di Rutigliano. Era solita, la scuola, presentare i loro migliori danzatori, in questo centro italiano danza gestito da Luciana Corso e Daniela Di Ludovico.

Fui tra i selezionati dalla scuola e ogni fine settimana del mese, si andava a Roma a studiare e a fare formazione. Studiavo con Luciana Di Ludovico, per il classico, mentre la danza moderna, ricordo un insegnante di Mediaset, della trasmissione “Buona Domenica”, Alessandro Minghi.

Ph. Gennaro Guida.

Quindi, diciamo, che il primo salto di studi professionali, fu consigliato da questa scuola di Rutigliano, mia prima scuola di danza. 

Lo studio diventa presto professione. Sicuramente contribuiscono le sue doti naturali perché veloce entra nello spettacolo. Teatro e televisione. Confessa, però, l’amore per il teatro. Il palcoscenico. Condividiamo con i lettori, l’emozione della “prima” volta in palcoscenico. In che lavoro e in quale teatro?

Il mio primo, vero e proprio lavoro e quindi il primo agognato contratto, nasce qui in Puglia, all’epoca studiavo con Bruno Collinet, co-direttore ospite del World Dance Movement a Castellana Grotte.

In quella occasione ci fu un’audizione per un progetto chiamato Flick, sovvenzionato con il Teatro Pubblico Pugliese.

“Archi” (2017)

Selezionavano dieci danzatori per la creazione di due coreografie, una con la regia di Barbara Toma e l’altra con la regia di Eva Sanchez della Martz Contemporary Dance Company.

Quello fu il primo contratto che firmai, ufficializzando la mia carriera di danzatore professionista. Quelli furono i miei primi lavori e sono stati i lavori che mi hanno stravolto la vita. Si passava dall’eleganza accademica al movimento istintivo primitivo, coinvolgendomi tecnicamente e stilisticamente.

Ph. Gennaro Guida.

Ore e ore di studio e prove. Condividere con altri danzatori le giornate insieme e imparare a stare insieme con altri danzatori.

“If you think…it’possible!” (2020)

Questa esperienza cambiò il mio concetto di danza che con Barbara Toma approfondii l’interazione tra danza e teatro.

Da lì nacque l’amore per il teatro e la sua importanza artistica nel mondo dello spettacolo, nonostante abbia lavorato anche in televisione, resto convinto che il teatro sia la massima espressione dell’arte scenica.

Naturalmente, lei non lascia gli studi. Lo spettacolo è l’ultima fase di un percorso artistico. Quali le scuole che le hanno permesso di acquisire la tecnica che la vede protagonista oggi?

Ecco, a questa domanda sarò sincero: sono stato fortunato in maniera diversa dai giovani danzatori di oggi.

“Flick!” (2014)

Nel senso che oggi tutti frequentano questi triennali di formazione, mentre io ho avuto modo di conoscere con il mio vissuto da “nomade”, molti coreografi e di poter lavorare e studiare con le loro compagnie o comunque nelle loro produzioni dove c’erano classi di studi di danza contemporanea e classica.

Quindi la mia formazione è stata “nomade” perché ho preferito sperimentare tanta, ma tanta roba prima di affermare, soprattutto a me stesso, che questa era la strada che volevo percorrere.

Giornata degli Artisti (2020)

Ho scelto di non soffermarmi su una sola “accademia”, ma approfondire tecniche e stili diversi della danza, dall’House alla Video-Dance, vari generi di contemporaneo ritrovandomi anche a dovere interpretare con la recitazione, un mondo ben più ampio della danza che mi preparare a “stare” in teatro.

Ph. Gennaro Guida.

Ricordo sempre che durante una lezione, questa era “semplicemente” una camminata. Mostrare la “presenza scenica” solo camminando e occupare un brano musicale di ben tre minuti occupando tutta la durata del brano, avendo questa imponenza scenica, fase di un’interpretazione di un balletto o di un qualsiasi altro spettacolo.

Ho avuto maestri che mi hanno insegnato anche a “stare” fermo. Essere “fermo” in scena, mostrando sempre di “essere” in scena.

Diciamo che i miei studi non sono stati solo collocati nel triennio di formazione per avere il diploma di professionista della danza, ma è stato più conoscere il “mondo” dal di qua di un palcoscenico per un pubblico che vede al di là di un palcoscenico.

Un omaggio ai maestri, è doveroso. Sicuramente a molti e come per tutti, abbiamo uno in particolare al quale, danzatori o altre professioni, restiamo legati. Ha un nome che le resterà nella memoria?

Tra i tanti maestri con i quali ho studiato e mi batte fortissimo il cuore rispondendo a questa domanda, è quello di Bruno Collinet.

E’ stato lui, il maestro che mi ha fatto crescere non solo come danzatore, ma come umano. Mi ha insegnato la pedagogia della danza, le molte dimensioni della danza stessa mai finalizzata solo al movimento del corpo, ma come ultima espressione di una interiorità espressa col corpo.

Bruno Collinet mi è stato sempre accanto, seguendomi nella mia crescita professionale. A tutt’oggi, è la persona alla quale faccio riferimento durante il mio percorso artistico ed è quello che ancora ascolto più di ogni altro quando mi preparo per un lavoro coreografico. E’ la figura più fondamentale per me.

Gli applausi, le emozioni, il piacere di assistere ad un balletto. Il corpo di ballo. La polvere del palcoscenico. Il pubblico probabilmente, sottovaluta quello che c’è dietro un lavoro coreografico. Prima della bellezza di un balletto, spieghiamo quali sono le rinunce e la fatica di un danzatore, che fa perché quel balletto susciti bellezza in teatro?

Dico subito che sono più le fatiche che le gioie. La gioia, in fin dei conti, è una unica emozione che si prova dopo avere realizzato un progetto.

 

Ma quella gioia ha un costo imponente fatto di sacrifici perché il dispendio di energie sostenute, è altissimo.

La ricerca, la scelta delle musiche, la composizione delle musiche con l’atto creativo della genesi di una coreografia. L’assoluta concentrazione a crearla.

Passi notti intere per capire cosa è giusto o cosa non dovrebbe essere giusto. A far intendere al pubblico, il significato, il messaggio, il contenuto del tuo lavoro.

Non fare solo “movimento” ma è indispensabile “raccontare” quel movimento perché è nel contesto della storia.

E’ importante che il pubblico comprenda una “storia” raccontata danzata. Ricordo quando studiavo con Michelle Assaf, che coreografò “La notte vola” con Lorella Cuccarini, diceva sempre che noi italiani, capita molto spesso che ascoltiamo canzoni inglesi senza conoscere il testo del brano e quindi senza conoscerne il significato.

Questa considerazione è rimasta incisa nella mia memoria. Posso creare qualsiasi cosa perché magari, mi sento un fiume in piena durante la creazione, ma il vero obiettivo è quello di fare riflettere chi sta guardando la mia creazione, il mio messaggio culturale e far porre anche delle domande sul significato di quel messaggio espresso con la danza.

Qualsiasi sia la domanda. Il vero sacrificio di una creazione artistica, è la ricerca che faccia sorgere un pensiero nuovo.

Ha interpretato ruoli in titoli di opere coreografiche importanti. Le cito “Sogno di una notte di mezza estate”, “Le jeaunne homme et la vie” con la famosa Teresa Strisciulli, poi la complessa “Settima” di Beethoven la cui drammaturgia fu curata da un importante firma del giornalismo e storico della danza, Ermanno Romanelli.

Inoltre ha presenze in compagnie note quali la Kodance&KO con “THE MUSIC IN MY HEAD CLUBBING”. Progetti, produzioni, una notevole “Traviata” curata da Monica Casadei, Elisa Barucchieri, Roberto Castello…

Stili e innovazioni. Sperimentazione e ricerca. Un’elasticità artistica e stilistica che identifica ognuno dei citati coreografi. Di fronte ad un nuovo lavoro, cosa fa? Azzera la sua conoscenza per imparane una nuova?

Come già detto prima, ho avuto la fortuna di studiare e conoscere tanti coreografi e buona parte di loro lo devo a Elisa Barucchieri.

“Finestre urbane” (2023)

Oltre che essere una delle migliori coreografe di oggi, è stata anche una figura importante per i miei studi e la mia conoscenza.

E’ grazie a lei, che presentava numerosi progetti organizzati al Teatro Rossini di Gioia Del Colle, in quel periodo direttrice artistica di quel teatro, che mi ha permesso di approfondire e conoscere altre realtà coreografiche.

Credo che fondamentale per un danzatore o comunque un artista, è dover conoscere. Un artista ha il dovere di conoscere altre forme di comunicazione artistica.

Io stesso provo ad annullarmi mettendomi in un angolo quando sono di fronte ad un nuovo maestro per apprendere, appunto, conoscere e imparare.

Di studiare non si smette mai. Che sia un giovane coreografo o un adulto maestro, che sia importante o no, avrà sempre qualcosa da insegnarmi.

Che comunque possa o no, condividere quel “pensiero”, è sempre necessario “annullarsi”, porsi come un foglio bianco, di fronte ad un altro maestro.

Questo mi permette di plasmarmi in una nuova forma, un nuovo stile o anche un nuovo modo di fondere la propria conoscenza con quella nuova imparata.

Nasce in me la predisposizione a volere ascoltare. Lì, nell’angolo, in doveroso silenzio perché tutto ciò che imparerò, prima o poi mi tornerà utile. Io credo che la danza è danza.

Ph. Gennaro Guida.

Non credo nella diversità e nella selettività. Perché molto spesso la danza diventa un’arte di nicchia, diventa quasi fosse un’arte per pochi, ipocrita snobismo.

Se scegli di fare il danzatore, come spesso dico ai miei allievi, l’obiettivo sarà la futura professione e quindi comunicare con le forme di comunicazione che sono infinite.

Annullare non è un termine corretto, semmai c’è la predisposizione ad imparare, a danzare, e quindi a proporsi con nuovi stili.

La danza è una sola. Poi si sviluppa in stili, tendenze, tecnica, espressione. Ma la danza è un’unica forma d’arte.

Il teatro. Ma la televisione? Una sua considerazione personale.

La televisione è un ritmo frenetico. E’ veloce. Macina tempi e cadenze dettate dai bisogni di un programma. Lontani dai tempi in un teatro.

La televisione è frenesia, è impaziente. Vuoi per i limiti di tempo di un programma al quale ne segue un altro, un ospite, un balletto, una presentazione, un ciò che accade, un fuori programma al quale tutti, tra conduttori, artisti, tecnici e regia, devono essere pronti.

Certo se registrato, si può tagliare, ma un programma dal vivo è un’ansia. Però la tv è magia. Mi fa brillare gli occhi, quando vedevi che si accendeva la lucina rossa sulla telecamera e che voleva dire che eri in diretta o in registrazione.

Quindi sempre pronto, perché non lo sapevi se toccava a te! Questo aspetto, ancora oggi, mi fa battere il cuore. Se, però dovessi scegliere, indubbio è il teatro.

La polvere del teatro, il “vuoto” dello spazio immenso, gli odori, l’eco dei passi sul legno del palcoscenico.

Il pianeta teatro è intriso di amore e sudore. Le lacrime scorrono e le delusioni sono più che le soddisfazioni. Perché ha scelto questa strada? Non era meno sofferta una scrivania e le ferie dell’impiegato?

Sa, cosa, col tempo me lo sono chiesto più volte. Alla fine mi sono detto: la libertà ha un costo e un prezzo che si paga e io voglio sentirmi libero. Costi quel che costi.

E’ l’arte in generale che mi fa sentire libero. Ho la passione per il disegno, la musica, la storia dei costumi, la fotografia. Vivo la mia vita con le cuffiette alle orecchie e ad ogni brano musicale, mi appaiono passi, luci, colori perché tutto poi diventa, per me, creatività.

Seguo spettacoli. Molti di colleghi. Non vivo la “mia” danza” come l’unica “danza”. Mi confronto, mi congratulo, cosa che nell’ambiente “danza” è cosa rara.

“Pazzo come me” (2019) Ph. Mariagrazia Proietto.

Ognuno è “il” migliore. Questo non arricchisce la crescita di ognuno. Se l’arte mi fa sentire così libero, perché non devo allora essere un uomo libero? Ecco perché ho scelto questo cammino.

Premi, riconoscimenti, esperienze che maturano la sua professione. Domanda “romantica”: quando un danzatore si ferma? Nel senso…quando si lascia questo complesso ma straordinario pianeta danza?

C’è stato un momento particolare della mia vita in cui le delusioni erano molte di più delle gioie provate. Mi ero reso conto di iniziare a versare lacrime per le delusioni.

In quei momenti, mi dissi: ok, forse è il caso di fermarsi. Le sono sincero: furono anni strani, non volevo più ballare, non volevo più fare cose che mi procuravano solo lacrime.

Ma la danza è un richiamo e onestamente, non potevo non risponderle. Non posso dire che si lascia la danza, quando non ce la fai più col fiato o il corpo non ti risponde più.

Guardo colleghi come Kledi, un professionista non più giovanissimo e lo vedi ballare ancora come un della mia età.

E allora ti chiedi: perché io non posso essere come lui? Perché io non posso ancora continuare a ballare? Eppure nonostante abbia problemi alle ginocchia logorate, causa di questa professione, ferite dai continui estenuanti studi alla sbarra, al centro, durante gli esercizi, eppure non si molla.

La danza è un’arte ed essa và oltre il corpo, oltre la fisicità di un danzatore.   

Ph. Gennaro Guida.

E domani?

Onestamente non saprei dire cosa accadrà domani a Mimmo Linsalata. Penso, non so, forse mi vedo come un vecchio brontolone.

Un vecchio, pignolo ed esigente brontolone che dirà questo non mi piace, questo non và bene, questo è così perché… e questo colà.

Insomma: insopportabile! Sono sempre alla ricerca della perfezione, della ricerca del movimento giusto, quello migliore perché debba essere compreso dal pubblico. Ecco: m’immagino come un vecchio insopportabile brontolone.

 “Vedersi” domani. Sorridere di se stessi sapendo chi sarò domani. Ovvio, è una probabile previsione. C’è una certezza: sa cosa farà domani.

La fiducia in se stesso, è un merito. Spalle larghe, gambe lunghe, il percorso è segnato. Mimmo Linsalata e senza presunzione, sa! Le delusioni? Le lacrime? I momenti no? E’ il passato.

Ha spalle larghe e gambe lunghe. La sfida è tenergli il passo. Di danza.

 Gianni Pantaleo.

 

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