giovedì, 21 Novembre, 2024 2:29:46 PM

Giulio De Leo, metodologie di un processo coreografico

di Gianni Pantaleo.

Rimodula una riflessione colta durante il lungo periodo pandemico. E’ un paradosso quanto “utili” siano le difficoltà che affronta un intero sistema sociale.

Significa quasi accettare che i post conflitti bellicci, che siano essi di natura politica mondiale o economica globale, possano “rigenerare” il modo di vivere e pensare dei popoli.

Tutto si rimescola, si scompone. Si sfaldano tessuti sociali convenzionali ormai diventati organismi “passivi” che marciano tutti insieme, inermi, appiattendo quelle facoltà umane che sono la creatività, il pensiero, il genio. Ne usciamo tutti sofferti e quello che accade a tutt’oggi, continua a depistarci.

Le certezze quotidiane vissute, sono stravolte e proprio il bisogno di vivere, rimodula e rivede tutti i codici dei comportamenti umani. E’ la resilienza.

Dalla distruzione, si ricostruisce. E’ l’Araba Fenice. E’ anche detto istinto, una caratteristica “animale” e dal quale l’uomo non si sottrae.

Tra loro c’è che rivede se stesso, riproponendosi con una istintiva metodologia, non ragionata, non razionale, simbolo di positivismo contemporaneo quasi come un Nuovo Umanesimo, nato dal buio di un presente frutto di una sofferta quotidianità:

Giulio De Leo, ci spiega la “ragione” di un lavoro d’arte coreografica, “Where”, presentato durante la rassegna di danza contemporanea “ESPLORARE2021” al Teatro Kismet di Bari, con due danzatrici che hanno partecipato alla realizzazione: Claudia Gesmundo e Erika Guastamacchia.

                                     Giulio De Leo

“Where”, se dovessimo pensare ad un luogo, non lo troveremmo mai. Durante la visione del suo ultimo lavoro, la sensazione provata è stata di sospensione nello spazio. Nessun confine, né muri, né cieli, né terre. Un progetto di infinita ricerca riconducibile alla genesi della creatività. Ricominciare da capo. E’ così che ha voluto presentare “Where”?

“Where” nasce da una riflessione sulle necessità che ci muovono, come artisti, ad operare insieme o ad incontrare il pubblico.

Il processo rappresentava il primo atto creativo dopo i lunghi periodi pandemici del 2020 e del 2021. Da qualche parte bisognava ricominciare, ma sicuramente non si poteva dare farlo come se nulla fosse successo.

Abbiamo messo in discussione i presupposti dello stare insieme, le metodologie e le dinamiche compositive che definisco l’estetica dell’opera, ma soprattutto abbiamo ascoltato il vuoto della platea, la sospensione generata dalla distanza del pubblico.

Forse è proprio quella sensazione di vuoto ad averci mosso così potentemente verso gli altri, senza confini.

Lei dice: “Sentiamo la necessità di rifondare e rigenerare il nostro agire e il nostro stesso collettivo…”, intendo che c’è voglia di chiudere in un cassetto della memoria tutto quello che ho fatto e osservare da una prospettiva diversa da quella precedente. Posso considerare questa operazione “avanguardia artistica”?

Non credo si tratti di avanguardia. Viviamo la lunga agonia della società capitalista e quella da cui usciamo è la prima grande crisi globale.

Credo che difronte ai dissesti che stiamo provocando sia doveroso porsi delle domande, prima come uomini e poi come artisti.

Bisogna mettersi in discussione, mettere in dubbio il proprio percorso e i propri obiettivi. Condividere tutto ciò con un piccolo collettivo di artisti è meraviglioso, ma non credo che basti a rappresentare il seme di un’avanguardia.

Perché un’avanguardia nasca è necessario che un certo numero di artisti si muovano in una direzione specifica e condividano degli intenti programmatici.

Nulla si può escludere. Non è detto che una nuova avanguardia non possa nascere da questa o dalle prossime crisi, ma in questo momento mi sembra che ciascuno sia più impegnato semplicemente a raccogliere i propri cocci. Siamo una generazione abbastanza mediocre di artisti.

Sono inevitabilmente “coinvolto” in una collettività sociale. Rischio di uniformarmi. Il timore, potrebbe essere, di somigliare all’altro, perdendo la mia identità senza che me ne renda conto. Lei si ferma, recepisce l’errore e quasi invoca questa consapevolezza di banale collettività che appiattisce la mente. Che cosa fa? Stravolge le carte da gioco? L’azione, mi permetta, è coraggiosa, quasi sovversiva…

Si, l’azione è sovversiva. La danza è sovversiva. La danza sottrae il corpo al dominio delle regole sociali, del sapere e del potere politico e lo proietta in una dimensione di soggettività che è di per sé sovversiva.

La sua visione dell’arte non è legata al mercato. Questo è un fare bene il proprio mestiere. Mi scusi: ma così facendo rischio di pensarla operatore sociale. Questo non elude di considerarla un artista, anzi. L’arte è operazione sociale! Sono le politiche artistiche di Menhir? La sua compagnia è nota per ricerca e innovazione.

Menhir nasce con l’intento di promuovere, produrre, distribuire e programmare la danza. Tutte azioni che si potrebbero sviluppare in mille modi diversi.

Noi abbiamo scelto di farlo orientando la nostra ricerca verso le comunità, i territori e gli spazi urbani.

Questa dimensione sociale non si traduce però in un’azione di assistenza per generare benessere e confort, ma in un gesto politico che può generare molte buone cose, ma anche disagio, rottura degli schemi sociali e culturali, provocazioni e scandali.

Insomma la nostra è una dimensione politica e non potrebbe essere diversamente, l’arte deve essere un gesto politico, un gesto capace di cambiare la realtà.

“Attività di ricerca finalizzata alla creazione”. Per fare questo è indispensabile conoscere il passato. La storia. Un’arte, la danza, studiata, destrutturata, ricomposta e riproposta al pubblico. E’ faticoso, se ne rende conto? Altri, montano, realizzano due effetti speciali, qualche parvenza di malessere interiore, quattro gemiti disperati, et voilà il prodotto è fatto. Non crede si abbia bisogno anche di gioia? Non mi fraintenda, sicuramente stiamo tutti in panico, ma a voi artisti si chiede anche un momento in cui, finito lo spettacolo, si torni a casa appagati del piacere di uno spettacolo. Le sembro frivolo se chiedo di non “abbruttirmi” in platea?

No, non mi sembra affatto frivolo. Si tratta solo di capire se è davvero a teatro che è ancora possibile trovare un momento di appagamento. L’arte è lo specchio della società.

Sta vivendo un momento terribilmente insignificante. Siamo tutti troppo preoccupati della nostra estetica, della nostra coerenza e ci allontaniamo sempre più dalla vita.

Where ha ritrovato attualmente la gioia e la capacità di parlare al pubblico che aveva sperimentato nelle esperienze di apertura in spazi outdoor o non convenzionali, precedenti alla serata barese.

Quella tappa ha rappresentato per noi un passaggio preziosissimo, indispensabile a capire come riabitare un palcoscenico senza perdere la vitalità che avevamo trovato all’inizio del processo.

La replica è stata radicale, forse anche ostica, ma è stata onesta, mai schiava dell’autocompiacimento. Credo che il pubblico abbia percepito questa nostra verità.

Che questo poi possa essere per lei o per lo spettatore in generale una ragione di appagamento, non è qualcosa che si possa definire con certezza.

Dipende sempre da come si sta in scena e da chi si ha difronte. Ogni serata è diversa, ma la serata di Bari è stata importante.

Quel pubblico è stato parte del processo. Oggi ce lo portiamo dentro.

“Where” conclude: “Quanto sarà sostenibile il processo (di ricerca e creazione n.d.r.), quanto durerà e dove ci condurrà non lo sappiamo…”, la considerazione è di profonda e sana consapevolezza. E’ leale averla pensata: lei non sa, ma scava, estrare, cerca nel passato, nel vissuto, risposte che aiutino tutti. Questa è l’operazione che l’arte deve fare: aiutare a capire. Lei lo fa con la danza. Menhir è laboratorio di ricerca, quindi. “Where” è sintesi di un lavoro di squadra: posso chiederle con chi “presiede” alla Tavola Rotonda? L’allusione è ai Cavalieri della Tavola Rotonda, dalle “Leggende Arturiane”, simboli di unità e pace sociale.

Menhir oggi è sicuramente un luogo d’incontro, un crocevia di esperienze significative.

Gabriella Catalano, Claudia Gesmundo, Erika Guastamacchia sono sicuramente fondamentali perché con loro condividiamo una dimensione quotidiana, una visione progettuale a lungo termine,

ma anche danzatori come Vanessa Cokaric e Antonio Savoia, che vivono a Berlino, sono importanti nel riequilibrio di energie e riflessioni che ci attraversano e, seppur da lontano, ci accompagnano e ci accompagneranno ancora per molto.

        Giulio De Leo, Claudia Gesmundo, Erika Guastamacchia.

Devo però scusarmi per l’intervista certamente priva di asettici tecnicismi letterari, ero premeditato e sa perché? Perché “Where” è stata capace di trasmettere un’esaltazione di gradevole piacere alla visione. Forse un po’ stanchi del “Chi siamo e dove andiamo”, una certa positività artistica non può che avvicinare meglio lo spettatore al teatro. Premeditato anche lei?

Stanco sicuramente anch’io di creare o di assistere a spettacoli in cui l’unica questione in ballo è l’autocompiacimento estetico. Quindi si, assolutamente premeditato.

Giulio De Leo si spoglia di allori e onori. C’è una ragione perchè presenti il suo pensiero artistico, nudo da quei sentimenti distintivi di chi è sotto le luci della ribalta: è stanco.

Probabilmente ci si assefa di se stessi. La sorpresa è la consapevolezza dell’esasperata attenzione solo per se stessi. L’arte è un mestiere di servizio.

Podii e placoscenici sono mezzi di trasmissione di una rifrazione personale di una visione e di quanto ci accade intorno, soffermandoci e narrando le vite vissute, specchi delle nostre vite.

Dolori e piaceri, non sono esibiti, ma rappresentati. Tempo ci fu perchè si esaltasse la bellezza. Testimonianze di arte sublime sono presenti nei luoghi della storia classica e ci incantiamo di fronte a tanta bellezza.

Ma non era fine a se stessa, rappresentava l’estrema ratio del pensiero filosofico. Mutano le esigenze e ad oggi, placando i meccanismi degli ideali della bellezza interiore, abbiamo dimenticato che non esiste un’estetica senza intelletto.

Con “Where”, Giulio De Leo, dimostra questo concetto di coesione, creazione, ricerca e innovazione.

Gianni Pantaleo.

Where, progetto GIULIO DE LEO in stretta collaborazione con CLAUDIA GESMUNDO ed ERIKA GUASTAMACCHIA

Incontri nel processo VANESSA COKARIC, GABRIELLA CATALANO

Collaborazione scene, tecnica, oggetti e materiali ANTONIO LONGO

Cura del progetto MARINA PESCHETOLA

Processo artistico COMPAGNIA MENHIR DANZA

In collaborazione con MAT Laboratorio Urbano/Terlizzi e TEX Il Teatro dell’ExFadda/S. Vito dei Normanni

https://it-it.facebook.com/compagniamenhir/

Le immagini e i testi potrebbero essere soggetti a copyright.

 

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