venerdì, 3 Maggio, 2024 9:12:21 AM

BARI – Marino Cordasco – Il linguaggio di un musicista del jazz

Ha un suo intimo percorso di musicista jazz. Marino Cordasco è fuori da modelli consumistici e riconosce quanto il suo jazz, sia un prodotto mirato, intensamente colto perchè nasce dall’interiorità del musicista.

Il jazz è spirituale. E’ l’energia che si manifesta con il piano, suo alter ego, diramazione della sua carriera di puro artista senza manifestazioni ostentate ma intimamente espresse con la musica.

Precoce istintivo musicista, si affida agli studi e mentore il suo maestro, Gianni Lenoci, affina la sua naturale vocazione di esecutore jazz. Qui di seguito, Marino Cordasco, si spiega ai lettori, apprezzando la sua misurata riservatezza.

Marino Cordasco

Giovanissimo dedica il suo interesse per la musica. Talento naturale, immagino. Si parla d’infanzia. Se ne accorsero subito i suoi genitori? Le attenzioni ad un bambino con queste doti, è importante.

In realtà l’unica dote che mi ha dato madre natura è l’orecchio assoluto. Non credo di potermi definire un talento naturale dal punto di vista prettamente pianistico del termine, quello che ho imparato a fare è stato frutto di sacrifici e lavoro intenso negli anni, più che di una predisposizione naturale.

I miei genitori mi hanno avviato allo studio della musica come un’attività pomeridiana che potesse arricchirmi, ma senza pretendere che questa diventasse qualcosa di troppo impegnativo, tant’è che fino ai tredici anni ho studiato brani dei Beatles o di Stevie Wonder come tastierista, per non più di un’ora al giorno.

Lo step successivo è avvenuto quando ho iniziato ad ascoltare qualche disco di Jazz dalla collezione di mio padre. Mi resi conto che appunto grazie all’ottimo orecchio che possedevo (cosa di cui non avevo neanche piena contezza all’epoca) riuscivo ad imitare le frasi di alcuni pianisti e quindi avevo le potenzialità per fare qualcosa di più. Fu solo da quel momento che iniziai a studiare in maniera più metodica.

Gli studi di conservatorio le permettono di approfondire lo studio del pianoforte. Dagli studi accademici allo studio della musica jazz. Che passo ha fatto per scegliere un genere musicale di così profonda cultura afroamericana?

La mia formazione è abbastanza anomala, ho fatto il percorso inverso rispetto a molti altri musicisti che prima si sono formati studiando i grandi autori classici e poi si sono dedicati allo studio del Jazz e dell’improvvisazione.

Per quanto strano possa sembrare ho praticato prima il Jazz, lo studio della Musica Classica è arrivato solo dopo e tardi, avevo già 19 anni, età in cui uno studente di vecchio ordinamento di Conservatorio avrebbe già potuto essersi diplomato.

La fascinazione per il Jazz è stata abbastanza spontanea, ricordo in particolare di aver consumato un disco: “Miles in Europe” del secondo quintetto di Miles Davis con George Coleman al sax tenore al posto del più talentuoso Wayne Shorter da cui fu poi sostituito.

C’è un sentimento nostalgico/metropolitano. Si vivono comunità sociali che parlano con le note degli strumenti che meglio rappresentano l’improvvisazione di una società che vive al di fuori delle convenzioni. “Circular Waltz” ne è esempio. Nella confusione contemporanea, parlo anche artisticamente, le sue esecuzioni, possono essere considerate come interesse all’ascolto di un periodo storico tra gli anni’20 e gli anni’40?

Non credo sinceramente che il mio modo di suonare si possa associare ad un periodo così lontano della storia del Jazz.

Dopo gli anni ’40 il linguaggio pianistico nel Jazz si è evoluto esponenzialmente grazie ad artisti come Bill Evans, McCoy Tyner, Herbie Hancock, Chick Corea, Keith Jarrett solo per citare i primi nomi che banalmente mi vengono in mente; ovviamente il linguaggio di tutti i pianisti Jazz di oggi, me compreso, risente delle innovazioni di questi giganti.

Al contrario non cerco di riprodurre una tradizione in maniera pedissequa, quando suono cerco solo di essere sincero e di ‘cantare’ attraverso il pianoforte la musica che in quel momento si spera venga fuori spontaneamente.

La tradizione va conosciuta e studiata ma non deve diventare una gabbia dorata. Il linguaggio di un musicista alla fine è un mix del suo carattere, dei suoi ascolti attraverso gli anni, dei suoi gusti musicali e delle sue scelte.

Segue il perfezionamento: lei rappresenta una serie di professionisti della musica jazz internazionali. Stockhausen: improvvisazione, libertà di espressione. Maria Pia De Vito, che fonde la musica mediterranea con il jazz, sperimentando linguaggi musicali coraggiosi. Moltissimi altri maestri la formano. La domanda è pertinente: tra i tanti, chi le ha dato maggiore libertà di espressione?

Fra i grandi artisti con cui ho avuto modo di perfezionarmi, anche per brevi periodi di tempo citerei sicuramente il grande John Taylor, pianista formidabile dal linguaggio armonico molto avanzato che ha ampliato le mie conoscenze di una certa scena jazzistica legata al grande compositore e flicornista Kenny Wheeler.

Ricordo con piacere anche la masterclass di Furio Di Castri a Siena Jazz, contrabbassista di fama mondiale che condivise con noi studenti un sacco di trucchi del mestiere.

Sicuramente la persona a cui devo di più è Gianni Lenoci, che è stato mio Maestro per anni, uomo generoso, dotato di una cultura profondissima e formidabile insegnante, capace di creare una vera e propria ‘scuola’ di allievi, ognuno dei quali dotato di una propria personalità.

Non è un caso che alcuni di essi siano recentemente saliti alla ribalta a livello nazionale con i propri lavori. Studiare con Gianni Lenoci mi ha liberato da una serie di sovrastrutture mentali che mi ingabbiavano.

“Day is done”. Marco Boccia Trio. E’ un equilibrio. Ogni strumento ha collocazione d’insieme legato all’altro. Si intersecano percussioni, tasti e corde. Il jazz integra. Associa. Nessuno è protagonista. Direi che è una di quelle pochissime attività artistiche che trasporta. Non è d’èlite ma nemmeno borghese. Posso considerarla musica dei popoli?

Collaboro in questo trio con Marco Boccia e Gianlivio Liberti da quasi otto anni, lavorando insieme col tempo siamo riusciti ad ottenere un sound di gruppo riconoscibile ed un buon equilibrio fra i vari strumenti.

Non so se questa musica si possa definire dei popoli, il Jazz ahimè resta sempre una musica di nicchia, ma questo gruppo riesce a mantenere una certa immediatezza ed impatto energico anche su ascoltatori a digiuno di Jazz, pur senza rinunciare ad arrangiamenti talvolta complessi.

Posso fare una considerazione? Forse è un po’ troppo personale, ma nemmeno poi tanto. Il jazz è solo musica. Il musicista jazz è silenzioso. E’ un riflessivo. La sua presenza è mirata allo strumento. Apprezzo molto. Sa perché? Nel dilagante esibizionismo d’immagine dai contenuti poveri di note, il jazz è sostanza. E’ una sensazione corretta quella che proviamo quando vi ascoltiamo? Siamo lì per la musica non per mirabolanti effetti speciali…

Non necessariamente i musicisti Jazz sono riflessivi, anzi ce ne sono di particolarmente istrionici e vulcanici.

Personalmente non amo troppo i musicisti la cui immagine ed esuberanza vada in un certo senso ad intaccare la qualità della musica stessa che suonano, io appartengo sicuramente alla categoria degli introversi sul palco e non.

Naturalmente non deve mancare la componente di comunicativa ed empatia col pubblico. Per chi sta sul palco la connessione col pubblico, laddove si instauri, è spesso un elemento determinante per la buona riuscita di un concerto.

Talvolta, se si crea la giusta alchimia con gli ascoltatori, si riesce a raggiungere un grado di concentrazione che definirei quasi di trance, la creatività del musicista sale ad un livello superiore.

Lei ha un bagaglio di studi e di presenze in vastissimi luoghi dove la filosofia musicale è la libertà di espressione della musica. Il Siena Jazz, l’Umbria Jazz e a Parigi per il Pianoforte Jazz “Martial Solal Piano Competition”, al festival “Jazz per L’Aquila” e poi al “BariinJazz” e al “Medimex”. Un “vagabondare” di ricerca e sperimentazione. Si evolve così un musicista jazz? Si confronta?

Assolutamente sì, uno delle cose che più amo del Jazz è il fatto che, a mio modo di vedere, più di altri generi è la musica dell’incontro.

Incroci anche casuali fra artisti con background e stili differenti spesso generano risultati interessanti e imprevedibili. Questo rende il jazz una musica estremamente vitale ed in costante evoluzione.

Cosa c’è di lei nelle sue esecuzioni? La sua discreta riservatezza si espande quando esegue un brano. Lì sembra “venir fuori” Marino Cordasco con le sue emozioni e i suoi sentimenti. Si comprende meglio l’artista dalle sue esibizioni o dalle sue parole?

Preferisco sempre che sia la musica stessa a parlare, oltretutto per sua stessa natura la musica è ineffabile, il suono muta continuamente, tende a sfuggire quindi alla definizione attraverso le parole.

Quello che cerco di fare quando siedo al pianoforte, forse utopicamente, è raccontare ogni volta una storia diversa.

Soprattutto mi interessa che il suono ed il fraseggio siano caratterizzati da una certa intensità, per molti aspetti sono un musicista piuttosto cerebrale, ma mi interessa comunque arrivare alla ‘pancia’ dell’ascoltatore.

Le parole volano. La musica resta. La si ascolta e la si riascolta. Il jazz unisce, riunisce. E’ un’operazione di alta qualità sociale. Le piace questa considerazione che abbiamo noi pubblico, quando siamo attenti ad ascoltarvi? Sa che sotto i tavoli, battiamo il tempo con i piedi e le mani? Questo è coinvolgimento, è stare insieme. Nella solitudine imperante, il jazz è terapeutico.

Come ho già detto prima il rapporto col pubblico è fondamentale, diversamente la musica diventa autoreferenziale (non che questo in alcuni casi non succeda).

Il Jazz ha sicuramente avuto una forte valenza sociale e politica in diverse fasi storiche della sua evoluzione, penso soprattutto agli anni ’60 con la “New Thing” quando si è fatto portatore del messaggio di protesta degli afroamericani.

Personalmente non sono così ottimista da credere che la musica possa cambiare il mondo, se ottengo l’effetto terapeutico, per usare il suo termine, di riuscire qualche volta ad emozionare qualcuno fra il pubblico, mi ritengo già soddisfatto.

Sorprende il suo equilibrio. Il fine ultimo della sua quotidianità è il rapporto con la musica. Si interfaccia, partecipa, collabora, è umanamente collettivo.

Non sono necessarie le parole quando in un insieme si è pronti per una esecuzione musicale. La discrezione di alcuni artisti è compensata dalla dimostrazione di quanto quel monotono vocìo umano, possa essere ben sostituito dalle note.

Nel jazz troviamo tutte le parole di cui abbiamo bisogno e con Marino Cordasco si dialoga.

Gianni Pantaleo.

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